Succede da un po’ che quando entro al cinema mi spoglio, lascio fuori aspettative e pretese e resto lì nuda a disposizione. E’ un atto di estrema fedeltà e abbandono e non è mai nuovo il fatto che senta sempre un po’ freddo, ma questa volta il film del giovane Dolan mi rende nervosa impaziente, desiderante, parte quasi attiva consapevole di un rito sacrificale.
È una scatola esplosiva (non a caso la scelta di quel formato ristretto, di contenimento, anche simbolicamente utero materno dal quale il ragazzo a un certo punto tenta di uscire, o per lo meno crede giocosamente di poterlo fare) quella che il regista ti mette ‘in grembo’, argento vivo di contenuti, immagini, suoni pop e materia vulcanica fin dai primi fotogrammi, fin dal titolo che ti abita ancestralmente e chiama a rispondere al mistero biologico per una donna di essere madre (creatore) in potenza.
E lo fa distruggendo tutto il lato tenero emotivo della maternità, del neonato, rendendo questo parto ancora più sconcertante, un parto al contrario, di un essere già grande, di un ‘mostro’, di un ‘toro’ enorme rosa e biondo anch’esso come un putto (ogni angelo è tremendo, Rilke) , di una potenza sconvolgente e incontenibile egli stesso gravido, scandaloso, fisiologico, violento, narcisistico. “Mamma, ti ho fatta di colpo e grande fra le sponde di legno e lo specchio” M. Gualtieri.
E l’iconografia continua quasi cristologica mostrando scritte e segni attingendo dallo scenario pop ritualizzato, sacro, apocalittico nell’accezione adolescente: la firma Die (Diane) della madre, la scritta Hell-o (della sveglia?), i ciondoli a confronto delle due donne Mommy e il simbolo dell’infinito, della speranza di Kyla personaggio focale, che rompe lo schema claustrofobico del Due, che ha perduto le parole, anzi il modo di esprimerle (non aderenza a un formato tradizionale, moderno), una pagina bianca Kyla su cui riscrivere una nuova storia familiare (sociale) dopo il fallimento di tutti i modelli e su cui re-inventarsi una vita dall’inizio con il ribaltamento continuo di ruolo genitore-figlio: “Mamma la cena è pronta” le implora la figlia mentre lei si perde innamorata dell’offerta straordinaria di Steve e ritorna adolescente in giubbotto di jeans imitando e confermando nei ‘panni’ di Diane anche l’appartenenza al ‘gruppo’ in sneakers e skate. (Ricorda alcune atmosfere J.T Leroy o Gus Van Sant).
E la consacrazione alla nuova famiglia-nucleo (è indispensabile quasi avere due madri perchè una non è sufficiente?) è poi ‘stigmatizzata’ dall’immagine sublime delle due donne che sorreggono il ragazzo grondante di sangue, mutilato-staccato da sé stesso (cristo in pietà) .
Essere madre-figlio contemporaneamente, mamma(personale) e madre(sociale) schizofrenicamente è questa l’indagine più profonda di Dolan, il senza ritorno che implica una scelta di rinuncia di identità o di parte di essa per salvarsi.
Diane è schiacciata, deprivata ridotta a un cliché e allo stesso tempo enfatizzata dal narcisismo del figlio.
Lei sopporta, tiene il controllo di tutto e Anne Dorval lo fa con una recitazione magistrale, in procinto di esplodere da un momento all’altro (da ricordare la scena della rottura del sacchetto della spesa in mezzo alla strada, mentre rimane immobile, pietrificata, all’ennesimo scherzo fatale del destino, inquadrata da dietro in tutta la sua prorompente inadeguatezza al mondo).
E’ il simbolo delle madri arrabattate, figlie della crisi, incarnazione di quella miseria appariscente di minigonne e chincaglierie da quattro soldi, in cui tutto è commercio, cheap, anche quel negare attraverso l’orizzontalità, la distanza-anche generazionale tra genitore e figlio a cui assistiamo da un po’ di anni, contro gli stilemi della tradizione, o la caduta di valori per cui anche l’idea di prostituzione passa normalizzata e quasi risolutiva.
Ci si innamora dell’energia onnipotente, mitologica di Steve, della sua capacità icarea di sfidare il sole, reso mirabilmente da Dolan in pieno delirio narcisistico e non si può fare a meno di seguirlo nella totalità e purezza della sua innovazione e distruzione del suo estremo amore verso Sua madre, opposta doppia speculare, fonte di disordine e perdita di identità ma è alla madre, alla fragilità, eroina anti-eroica, che si rivolge il nostro sguardo più attento, al di là del compiacimento offerto, tanto che per uscire da questo circolo vizioso, claustrofobico e inquietante di ripetività (ho ancora speranza- dice Die all’amica ritrovandosi sola a casa dopo aver consegnato il figlio all’ospedale psichiatrico) diventa necessario un sacrificio, un tradimento, una ulteriore definitiva mutilazione, per Essere.
“ Il sacrificio considerato nella sua fase iniziale non sarebbe che un rifiuto di ciò che era confacente ad una persona o ad un gruppo. Il sacrificante è libero, libero di lasciarsi andare egli stesso a una simile effusione, libero, identificandosi continuamente nella vittima, di vomitare il proprio essere, come ha vomitato un pezzo di se stesso o un toro, cioè libero di gettarsi tutto a un tratto fuori di sé…Bataille)
Coraggio.