Così come di ogni film si può dire che possiede un motivo conduttore, una vocazione di fondo che il critico deve rintracciare sulla superficie visibile, lo stesso si può dire di un festival. Ebbene l’aggettivo giusto per definire la vocazione del Molisecinema filmfest, svoltosi nella dolce cittadina collinare di Casacalenda dal 5 al 10 agosto, è sicuramente “pionieristico”.
Casacalenda, infatti, è un paese di 2500 abitanti – che però ne contava 11.000 prima che un’emigrazione selvaggia lo svuotasse – che interrompe larghe distese di campi coltivati e che fa parte di una regione, il Molise, davvero trascurata dalle rotte turistiche e dai tour culturali. A Casacalenda non c’è più una sala cinematografica (anche se dopo sei edizioni del festival si parla di ristrutturare quella storica del paese, il “Cinema Roma”) e c’è da scommettere che il Molisecinema rappresenti l’evento culturale più importante dell’anno. E’ dunque un territorio in cui è possibile trovare un pubblico dallo sguardo relativamente vergine rispetto al cinema inteso come “esperienza collettiva di conoscenza” o come “luogo fisico di incontro e condivisione” (dal catalogo del festival). E non si tratta di semplici dichiarazioni di intenti perché in effetti tutto, nell’organizzazione dell’evento, concorre a favorire l’incontro e lo scambio: i colloqui con autori e protagonisti che sempre precedono le proiezioni, le numerose feste, i pranzi e le cene imbanditi nelle case del borgo in cui sembra di incappare quasi per caso, cui partecipano giornalisti, registi, attori, organizzatori e gente del posto, contribuiscono a creare un clima familiare e di vicinanza umana che favorisce davvero lo scambio culturale.
Perché un conto è vedere un documentario su un’incredibile partita di calcio femminile tra la squadra tedesca e quella iraniana svoltasi nello stadio di Teheran gremito di sole donne velate scatenate nel tifo (l’accesso era interdetto a qualunque persona di sesso maschile compreso il regista!), un conto è assistere alla proiezione di Football under cover – questo il titolo del film che ha vinto la sezione Frontiere dedicata ai documentari – e poi andare a cena con il regista iraniano Ayat Najafi che viene da quella realtà così diversa dalla nostra, ma che pure è una persona allegra, vitale che ama divertirsi e mangiare bene come noi. Sembra una cosa banale, ma non lo è, soprattutto in tempi di continui allarmi sicurezza e di eserciti dispiegati nelle città. Come non è banale che l’attore israeliano Ami Weinberg, che ha recitato in Mapping, cdocumentario che racconta il giorno della Memoria sul cantiere della costruzione di uno dei tanti muri fra Israele e Palestina, abbia finito per fare il viaggio di ritorno con il suo collega iraniano Ayat, mentre sui giornali si assiste al grottesco balletto delle minacce atomiche fra Gerusalemme e Teheran. Si ridimensiona tutto, cade qualunque barriera culturale artificiosamente pompata dai media, si tocca con mano che il dialogo è sempre possibile.
Sempre nella sezione Frontiere ha trovato spazio un vero gioiello, tra l’altro già visto e premiato al festival di Arcipelago: Don Roberto’s Skugga (L’ombra di Don Roberto) dello svedese Hakan Engstrom e del cileno Juan Diego Spoerer. In una vecchia miniera abbandonata nella terra desertica del Cile del nord abita da molti anni un uomo, completamente solo, che trascorre una vita di meditazione filosofica passeggiando tra le rovine della miniera, ammirando i tramonti nel deserto e confidandosi con la propria ombra. Quest’uomo, che i registi hanno convinto a raccontare la sua storia e i suoi pensieri alla telecamera, ha un passato drammatico di prigioniero politico, ma invece di cercare un’impossibile dimenticanza, ha scelto di vivere nel luogo stesso delle violenze subite, di immergersi totalmente nel ricordo per fronteggiarlo meglio: la vecchia miniera, infatti, trasformata dai militari di Pinochet in un campo di prigionia, era stata il teatro della sua sofferenza. Don Roberto, però, paradossalmente è proprio lì che riesce a metter fine agli incubi che lo tormentano e a dare di nuovo un senso alla propria vita di reduce. Il tempo e la meditazione solitaria hanno reso evidentemente tollerabili i ricordi e hanno suscitato in lui addirittura una forma di pietà verso i suoi torturatori i quali invece, intervistati anch’essi dai registi, soffrono, ma non vogliono ricordare. E soprattutto, non trovano le parole per ricordare.
Elogio della solitudine, meditazione filosofica, scavo onirico e quasi psicanalitico, reportage dell’anima: sono molte le chiavi con cui è possibile interpretare questo lavoro di Engstrom e Spoerer, che è davvero riduttivo definire documentario.
Interessante anche l’idea che ha dato spunto al documentario El hombre feliz della spagnola Lucina Gil: durante un periodo della sua vita particolarmente infelice, la regista ha deciso di fare un film su un soggetto inconsueto: un uomo felice. Per trovarlo ha persino messo un annuncio sul giornale, ma quelli che hanno risposto non l’hanno convinta. Alla fine l’ha trovato per caso, il suo uomo felice: un vetraio sposato da 56 anni, assolutamente fermo nel dichiarare di essere stato sempre assolutamente sereno, soddisfatto della sua vita. La regista intervista la moglie, gli amici, i figli, il direttore della banca in cui tiene il conto: tutti sono concordi nel definirlo un uomo che è sempre stato sorridente, amorevole… in poche parole, felice. Il risultato finale, un po’ paradossale e anche inquietante, è di far apparire come un destino assolutamente eccezionale quello che – così ci viene promesso da giovani – dovrebbe essere la normalità.
Tra gli esperimenti riusciti del festival c’è l’inserimento nel “palinsesto” di alcuni brevi video, pillole concentrate di brandelli televisivi riletti in chiave satirica, moralistica e antropologica attraverso la lente interiore di celebri voci off della storia del cinema (La fiamma del peccato, Il diario di un curato di campagna, La sottile linea rossa…) o di brani musicali appositamente composti. Si tratta dei “cine/giornali” – realizzati da un blobbista che si firma di volta in volta Manyg o Emmennegì – di cui abbiamo già parlato e che in parte abbiamo anche mostrato su Schermaglie sotto la rubrica InEtere. Il genere, indubbiamente imparentato con il Blob televisivo, è quello di una sorta di editoriale satirico audiovisivo che ha l’effetto di rivelare aspetti sottotraccia di personaggi e avvenimenti dell’attualità politica e televisiva. NeroPrecario, ad esempio, che accosta immagini in bianco e nero di lavoratori emigranti degli anni ’50 ai balletti delle veline t
elevisive mentre il testo della canzone composta da Davide Caldiero recita, (a)variandoli, gli articoli della Costituzione italiana dedicati al lavoro, è stato proiettato al festival subito dopo un documentario istituzionale sulla figura del padre fondatore della costituzione Luigi Einaudi che tanto ha fatto, nei diversi ruoli da lui ricoperti nella storia repubblicana, per dare dignità al lavoro degli italiani nel dopoguerra. Ebbene, nonostante lo stile antitetico, NeroPrecario e L’eredità di Luigi Einaudi proiettati uno dopo l’altro hanno rappresentato un cortocircuito perfetto, illuminandosi a vicenda e imprevedibilmente quasi associandosi nel messaggio di fondo. Il pubblico, tutto costituito dai giovani del posto, ha accolto tranquillamente l’accostamento e anche gli autori, entrambi presenti, hanno dialogato pubblicamente sotto l’accorta conduzione del direttore artistico Federico Pommier Vincelli.
Fa piacere ricordare, in conclusione, la sonorizzazione delle comiche di Stanlio e Ollio eseguita dal vivo dal musicista sperimentale Schiaffino: l’accostamento tra la sua musica d’improvvisazione sottilmente disturbante e le comiche è abbastanza ardita, ma in fondo non particolarmente nuovo. Inedita, e quasi sacrilega, è invece la scelta del luogo: la chiesa di Santa addolorata!
Le donne del paese, quelle che non perdono una messa, sono accorse a frotte e hanno seguito con attenzione e qualche risata: certo, chissà quando ricapiterà loro di partecipare ad una celebrazione così particolare…
P.S. Sulla via del ritorno, l’altro giorno, afferro distrattamente un giornale e leggo un titolo: “Bombe su Tbilisi, è guerra fra Russia e Georgia”. Com’è possibile che mentre a Casacalenda si sta svolgendo il MoliseCinema filmfest, tra schermi e banchetti, a Tbilisi ci sia gente che scappa sotto le bombe? Ripongo subito il giornale, c’è ancora il tempo del viaggio prima di tornare alla realtà…
“…e poi andare a cena con il regista iraniano Ayat Najafi che viene da quella realtà così diversa dalla nostra, MA che pure è una persona allegra, vitale che ama divertirsi e mangiare bene come noi” – … perchè non dovrebbe essere una persona allegra e vitale SOLO PERCHE’NON VIENE D’ITALIA ?! Mica che in Iran sono tutti tristi e magri..
In realtà il riferimento implicito era proprio a quel luogo comune propagato soprattutto dai media secondo il quale l’Iran è un paese di fanatici terroristi tutti tesi a costruire bombe atomiche, a perseguitare le loro donne (purtroppo questo è vero, prova a leggere Lolita a Teheran) e a odiare l’edonismo occidentale. Incontrare iraniani in carne ed ossa aiuta a rendersi conto che non è così, che c‘è una bella differenza tra gli stereotipi e le persone vere; questo volevo dire, anche perché è quasi impossibile resistere veramente, profondamente intendo, ai bombardamenti mediatici. Chissà che anche a te, caro claude, qualche volta, non scappi qualche espressione non perfettamente politically correct….