Il Molise visto dall’alto sembra un posto in cui non accade niente, immobile tra collinette uniformi e microvariazioni tonali che suonano piatto, ma ad avvicinarsi ed entrare dentro le concavità della superficie, ecco che le macchie e i punti si animano e prendono ad essere quello che sono, la gravità dello sguardo ravvicinato viene ripagata da sorprese, a volte dolci altre volte aspre, e viaggi “in piena luce”.

Proprio quest’ultima locuzione è anche il titolo del bel libro di Gabriele Pedullà (In piena luce, Bompiani 2008), presentato in un'affollata mattinata dentro la fresca cinecaverna che ha ospitato molte delle videoproiezioni dei cortometraggi e documentari in concorso, stimolando la spola di noi spettatori con la vicina piazza grande – in realtà il corso del paese, tutto in discesa come certe prospettive sceniche di una volta – in cui assistere alle proiezioni dei lungometraggi. Il brillante autore ci ha parlato di come considerare la visione dei film nell’era degli individual media, arrivando alla conclusione che la sala cinematografica certo non morirà, ma sempre più diverrà un’esperienza eccezionale (con tutte le implicazioni morali che ne derivano, ma sul punto rimandiamo l’approfondimento alla stessa tavola rotonda esperita, che, presto, troverete trascritta su Schermaglie).

E in qualche modo è se non altro singolare e un po’ straniante aver visto dei documentari provenienti dall’India (Three of us di Umesh Kulkarni) e dalla Cina (Under construction di Zhenchen Liu) a contatto gravitazionale con le pietre e le superfici rugose di Casacalenda, la videoarte difficile di Douglas Gordon (Zidane:A 21st Century Portrait) e quella più godibile di Marinella Senatore (Burn!), a sviare il discorso dentro la storica Casina dell’Unione, umanizzata dal suono d’avorio e di vecchio panno proveniente dal biliardo del piano di sotto.

E proprio il documentario cinese Under construction, come d’altra parte tanto cinema asiatico della transizione, è quello che riesce a rappresentare le contraddizioni tra tradizione e modernità meglio degli inglesi (il programmaticamente poetico e fin troppo aereo City of Cranes – ovvero la città vista dall’alto delle gru – di Eva Weber), dei tedeschi (il piatto e noioso Vali Asr di Norman Richter) e, più in generale, di tanto cinema a noi geograficamente più vicino. Sarà anche che guardarsi dritti negli occhi è difficile, e a volte è necessario mettere la distanza come dispositivo di relazione, ficcarsi in delle storie di ambienti di cui non si sa niente. E dunque, in quest’ottica, la storia indiana di un disabile alle prese con le difficoltà quotidiane e le relazioni familiari strette tra camera da letto e cucina, riesce ad essere un’osservazione che cattura l’essenzialità del gesto e della gioia non deragliando nel sentimentalismo (Three of us). Don Roberto’s Skugga, documentario dello svedese Hakan Engstrom (presente al festival) e del cileno Juan Diego Sporerer, rievoca invece la storia di una miniera nel Nord del Cile, convertita a campo di concentramento per prigionieri politici e infine abbandonata, che diventa la terra presa in cura dal protagonista, un ex prigioniero del campo alla ricerca di solitudine, senso e libertà. Una relazione tra due protagonisti feriti dalle costrizioni della Storia, che, seppur rappresentando tutto il dolore e la potenziale follia insita in scelte estreme ancorché necessarie come la solitudine, riesce a rendere vivi entrambi.

La giovane regista italiana Stefania Andreotti, per trovare la giusta distanza si sposta invece fino in Messico, a documentare la Vida loca di giovani “pandilleros” dentro le bande di strada latinoamericane, fenomeno che sembra lì lì per scavalcare i limiti territoriali e sbarcare puntualmente in Europa. Una visione lontana nella scelta del soggetto, ma vicina in quella del punto di osservazione (un ritmo convulso da videogioco adeguato ai tempi adrenalinici dei protagonisti che uccidono “per fare punti”), che rimanda a una pratica sociologica di avvicinamento e presa di fiducia, la quale riesce a far parlare liberamente l’incoscienza disperata dei giovani divisi tra droga, carcere e morte.

Il film che ha vinto il concorso dei documentari, Football Under Cover, altra feconda collaborazione transnazionale tra il regista iraniano Ayat Najafi (ospite del festival) e il tedesco David Assman, stupisce per la semplicità e la forza rivoluzionaria dell’idea: una partita di calcio femminile tra Iran e Germania (simulata in una sera appiccicosa al calcetto balilla del bar di Casacalenda). Finirà in un pareggio, ma, più che il politicamente corretto, il punteggio evoca il lungo tempo di condivisione e di studio che tutte le giovani donne hanno messo nel campo della richiesta dei diritti e del riconoscimento reciproco. Il film segue infatti lo svolgersi imprevisto degli eventi per oltre un anno. Avanti e indietro le frontiere, i registi stanno al fianco delle loro protagoniste, indecisi tra la ripresa neutra e l’intervento provocatore. Indecisione, questa, che d’altra parte ha attraversato gran parte di quanto visto al festival. Sembra proprio che non si possa più essere oggettivi, quasi che in tal modo si lasciassero fuori dalla porta le proprie convinzioni, e ciò nonostante la consapevolezza dell’importanza di salvaguardare la distanza tra chi filma e chi vive la vita.

Il sismografo appostato a Casacalenda da Federico Pommier Vincelli e dal suo staff (segnaliamo la presenza di Anne Preckel di Schermaglie tra i selezionatori dei lavori presentati), in una manciata di giorni sembra insomma aver suggerito la possibilità di uno sguardo che si fa sempre più mobile sulla crosta terrestre, e in cui, parafrasando un bel racconto di Italo Calvino, ciascuno può ricercare al buio la propria distanza dalla luna.   

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