Leggendo Resistere non serve a niente abbiamo avuto la sensazione che Walter Siti sia ricorso a descrivere una scena di pedofilia solo per dare finalmente un volto e una forma ad una condizione di accerchiamento e assedio perenne del Male, quando invece – nel resto del libro – non è sempre riuscito a decifrare in maniera altrettanto compiuta tutto l’abbruttimento del suo protagonista, sempre sull’orlo di un precipizio morale eclatante.
In Miss Violence, Alexandros Avranas riesce addirittura a rovesciare ed estremizzare la prospettiva, ponendo alcuni tabù atroci e sconvolgenti, quali l’incesto o gli abusi sui minori, come intera struttura portante del nucleo narrativo che voleva filmare. Assistendo al film già premiato a Venezia con il Leone d’Argento per la miglior regia, ci si avvicina in maniera così esplicita alla Sofferenza che non è affatto inopportuno chiedersi se alcune scene non siano del tutto gratuite. O se il regista – piuttosto – non si presti prima di tutto ad una sfida personale con il proprio talento, commisurandola unicamente al punto di rottura verso il quale è possibile piegare i livelli reconditi di perversione e voyerismo dello spettatore.
La conferenza stampa di presentazione di Miss Violence al Cinema Quattro Fontane di Roma, in questo senso è stata utile per dare maggiori chiavi di lettura a tutta l’opera, ma soprattutto per porre alcune nostre perplessità direttamente al regista. Su tutto è emerso come Avranas abbia voluto dare risalto alla dimensione di branco della famiglia di Angeliki. Un microcosmo dove alcune regole atroci sono assolutamente accettate e condivise da tutti i suoi membri e anzi finiscono per autoalimentarsi nella loro condizione di isolamento e autonomia rispetto alla vita della società esterna. In quest’ottica il finale aperto (?) del film ha una valenza ancora più agghiacciante, soprattutto per quello che riguarda il ruolo della madre nella gestione della violenza.
Recalcati recentemente ha scritto su come molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della Legge della parola funziona una sorta di Legge immaginaria del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica paranoicamente l’esterno come luogo di minaccia permanente. Da questo punto di vista è proprio il rapporto della famiglia di Avranas con l’esterno che contiene le maggiori contraddizioni e forse i termini di un dibattito ancora più interessante, più che l’evidente brutalità delle orrende scene di sesso.
L’autore di Without ha tenuto a precisare come volesse elaborare una forte critica all’invadenza socio comportamentale della Germania nei confronti della Grecia (i documentari sugli animali che trasmette la tv sono sempre in tedesco). Anche la scelta di un brano di Cutugno in una scena di prostituzione in questo senso non è affatto casuale, ma rileva il background culturale dell’attuale classe politica del governo di Atene, nutrita negli anni ottanta da modelli assolutamente superficiali e vuoti.
La dipendenza psicologica di tutti i componenti della famiglia dal Padre orco, non può che leggersi, in questo senso, come l’arrendevolezza con cui il popolo greco subisce le imposizioni contro natura dell’Europa finanziaria. Il fatto che non sia Myrto la figlia apparentemente ribelle a compiere la rivolta contro il suo aguzzino, ma addirittura l’anziana madre conferma come la ciclicità del potere rimanga sempre nelle mani corrotte delle generazioni più conservatrici.
Se a livello politico ed economico Avranas rifugge dal modello della Merkel, in ambito strettamente visivo, dipende profondamente dai grandi registi della Germania. In generale, aldilà dell’evidente prossimità al rigore stilistico di Haneke, il fatto che nel film si tocchino temi così legati all’incesto rimanda direttamente all’ultima prova di Kim Ki-Duk, Moebius, e alla sensazione che i due registi affrontino con una violenza inaudita il crimine più atroce dell’uomo quasi per sdradicare dalle basi la soggezione al male a cui siamo quotidianamente sottoposti e di cui quasi più non riusciamo a decifrare i contorni.
L’opera di Avranas non può che far discutere ma, altresì, conferma l’assoluta concretezza del nuovo cinema greco. In questo senso è sintomatica la complementarietà di Miss Violence con il famigerato Alpis di Lanthimos, dove i ruoli non sono solidificati e immutabili come nella famiglia di Angeliki, ma anzi sono indefiniti e tendono drammaticamente al’oblio.