“Per questo il sadico vorrà delle prove manifeste dell’asservimento alla carne della libertà dell’altro: tenderà a far chiedere perdono, lo obbligherà con la tortura e le minacce ad umiliarsi, a rinnegare ciò che ha di più caro. Si dice che ciò avviene per gusto di dominio, per volontà di potenza. Ma questa spiegazione è vaga e assurda. E’ il gusto di dominare che bisognerebbe spiegare prima di tutto, e proprio questo gusto non può essere anteriore al sadismo come suo fondamento, perché nasce come questo e sul suo stesso piano, dall’inquietudine di fronte all’altro. Infatti se il sadico si compiace di costringere con la tortura l’altro a rinnegare, è per una ragione analoga a quella che permette di interpretare il senso dell’amore”.
Scusate la citazione troppo lunga tratta da L‘essere e il nulla di Jean-Paul Sartre, ma serve a fornire le giuste coordinate per alcune riflessioni negative riguardo al premiato film di Alexandros Avranas, Miss Violence. Il film del giovane regista greco, si apre con il suicidio dell’undicenne Angeliki e termina con l’omicidio compiuto dalla donna anziana da tutti chiamata Madre, e il cui nome mai conosceremo. Nel mezzo aggressioni, violenze, stupri ed esibizioni di minorenni. Il marito/nonno/padre e padrone è colui che orchestra crudelmente il gioco in un crescendo ributtante che ne svelerà anche il ruolo di “protettore” nei confronti della figlia sedicenne – e che follia usare questa parola per definire chi sfrutta il corpo e l’anima della donna che mette in vendita.
Avranas possiede una consapevolezza delle potenzialità del linguaggio cinematografico (sia nella scrittura che nella messa in scena) di indiscusso valore. E possiede anche una sua vis, diciamo così, altamente provocatoria. Ma il tema che sceglie è ad alto rischio e non può sfuggire alla seguente domanda fondamentale: la violenza rappresentata trova una sua giustificazione nel senso indagato ed espresso dall’opera?
Il formalismo di Avranas più che spingere a cercare percorsi psicologici che spieghino la necessità di tanto male, ci induce da subito a simbolizzare le immagini che scorrono, rimandandoci con il pensiero a universi concentrazionari, miti e tabù. Ma è proprio il regista a precisare come quest’ultimo, e a mio parere interessante, aspetto, ossia quello relativo alla rappresentazione del tabù dell’incesto come ciò che mette il nucleo incestuoso fuori dalla società in una forma estrema di chiusura e privatizzazione che porta la famiglia ad implodere, non c’entri affatto con il suo film. Così che allora ci ritroviamo costretti a cercare nel sistema dei simboli tessuto da Avranas e nel linguaggio scelto per esprimerli qualcos’altro, visto che non stiamo in una di quelle commedie dove ciò che conta è solamente il ritmo dello spettacolo. Nel far questo potremmo magari partire dalla necessità, che se presente testimonierebbe anche dell’autenticità. Carlo Levi scriveva che psicologicamente la paura della libertà produce i regimi totalitari, mentre la paura individuale fa parte degli alterni modi di essere dell’individuo ed è quindi un segno della sua umanità. La paura, quindi, è ciò che permette al totalitarismo di corrodere gli uomini dal di dentro, senza bisogno di sparare un colpo.“Non mi importa che mi amino, basta che mi temano”, ripeteva Benito Mussolini, e ciò in perfetta sintonia con la strategia del terrore, disumana e assolutizzata, su cui i nazisti hanno fondato tutto il loro potere.
Il film di Avranas ci mostra delle persone completamente terrorizzate e asservite al Tiranno, persone a loro modo disumanizzate e prive di contraddizioni di un qualche peso, ciò rispondendo, evidentemente, a una precisa scelta registica diretta non alla rappresentazione del male di un singolo specifico individuo quanto, piuttosto, asservita a una visione simbolica del male. E qui arriviamo al punto che si vuole contestare e che, in questa prospettiva, fa sì che Miss Violence sia un film gratuito e portatore di una visione nichilista. Chi scrive, in accordo con la premessa tratta dagli scritti di Levi, crede che non con la vendetta, ma solo con la libertà si combatte questo male riducendolo al nulla. Ma questa contrapposizione, anche solo sfumata, nel film non c’è. La Madre si vendica e prende il posto del Padre senza mostrare alcuna discontinuità rispetto all’uso (e abuso) del potere. Una semplice e naturale sostituzione, sembra dirci il regista. Gli assistenti sociali, poi, sono presentati come fossero poliziotti impegnati in una perquisizione in stile Tarantino mentre la scuola viene mostrata come un luogo in cui vengono attuate procedure inverosimili (quando scende nelle rappresentazioni realistiche sembra Avranas diventa poco credibile: minimalismo impreciso e simbolismo all’eccesso forse per celare una mancanza di contenuto?). Tutto è eterodiretto e costruito al millimetro, ma a conti fatti sembra di stare dentro un gioco sadico cui però manca un correlativo sia con l’esterno (la società, che è ridotta a macchietta di negatività quando non del tutto assente) sia con l’interno (la psicologia dell’individuo). In questo modo, Avranas finisce per costruire un sistema rappresentativo manipolatorio e sadico poggiato su figure di personaggi (in quanto tendenzialmente astratti) in preda a una psicosi di terrore che invece di produrre resistenza produce isterica impotenza e imbelle resa al potere. Va bene, direte voi, ma il sistema di potere nella realtà tende a (ri)produrre proprio questo. E qui entra in gioco lo sguardo dell’artista, l’urgenza che lo spinge a fare un film come questo. Un film cioè esibito, in cui il fuori campo della prima parte (al netto della scena iniziale, simile a quella che Pietrangeli, in Io la conoscevo bene, mise inevce alla fine, e appunto in un fuori campo) finisce per irrompere nel film come un violento effetto speciale.
Avranas ha violato tutte “le regole”, costringendoci a guardare una bambina di otto anni che rivolgendosi alla mdp si mette a ballare per il godimento di due uomini anziani di cui uno è il nonno (peraltro lì dopo aver appena stuprato la figlia sedicenne). La scena è girata in tempo reale, fatta benissimo, ma qual è il suo scopo? Farci partecipi dello spettacolo? Farci sentire in colpa per aver partecipato? Provocare una reazione indignata? Mostrarci lo sguardo complice e ambiguo della vittima (questione interessante, sicuramente, ma dipende da come la si mette in scena e la si sviluppa, soprattutto se si usa lo sguardo di una bambina)? Ovvero, più semplicemente, coinvolgerci in un gioco di resistenza cinico ed estetizzante che annulla gli anticorpi della vera resistenza?
Ma forse, alla fine, è soltanto un bignamino sulla dinamica sadomasochista aggiornato ai tempi delle varie cronache vere (è il regista che d'altronde tiene a dirci che il film è tratto da una storia vera) e delle relative estetiche della violenza, ovvio che in questo modo si finisca poi per svuotarla del fattore umano (variabile).