“Non merito di essere perdonato, ma non voglio che tu mi odi…”.
Queste parole semplici, dirette, essenziali pronunciate da un padre nei confronti della figlia che ha abbandonato per anni inseguendo l’illusione di una gloria effimera, non avrebbero lo stesso denso significato se non fossero associate al volto di chi le pronuncia in The Wrestler, piccolo grande capolavoro attraverso cui un cineasta anomalo come Darren Aronofsky asciuga il suo stile eccessivo e ridondante per far emergere con ruvida, brutale autenticità lo scheletro, la struttura portante della storia di un uomo la cui anima è in perenne lotta con il proprio corpo e, tramite questo, con il mondo esterno. L’eccezionalità di quel volto sta nel fatto che anche se non enunciasse nessuno dei dialoghi sulla soglia della banalità del quotidiano, sarebbe comunque in grado di raccontare anche muto la storia di Randy “The Ram” Robinson, lottatore professionista di wrestling alla resa dei conti con lo sport che pratica, le donne della sua vita, la sua stessa esistenza.
Sarà perché Mickey Rourke, il proprietario del volto in questione, porta lui stesso sulla pelle e dentro la carne i segni di una storia personale e professionale che, almeno negli ultimi quindici anni, l’hanno costretto ad una continua, estenuante resa dei conti. Scorgendo bene dentro il volto pesante, tumefatto da una carriera di pugile nella quale ha rischiato di bruciarsi senza mai splendere realmente come atleta, è possibile intravedere i punti luminosi, intensi di un percorso attoriale.
Tre ritratti di personaggi a loro modo disturbati ci avevano svelato che animale cinematografico di razza fosse Rourke nella seconda metà degli anni Ottanta: il poliziotto cinico, ma nel fondo disperatissimo de L’anno del dragone, il detective che viaggia dentro la magia nera di New Orleans e dentro la parte nera di se stesso in Angel Heart, lo straziante, tormentato, sensuale Francesco di Liliana Cavani. Certo perché ci fossero questi picchi era inevitabile, almeno per uno come Rourke, che si alternassero delle cadute ancora più profonde nel kitsch dell’erotismo patinato con in testa il mellifluo broker di 9 settimane e ½ e nel fondo del fondo, nella caricatura involontaria dello stesso personaggio in Orchidea Selvaggia.
Era stata la gloria degli anni Ottanta ad abbagliarlo, quella celebrata anche da Tori Amos in una delle sue canzoni meno comprese, perché di quel decennio di ricchezza ed egemonia materiale svelava la miseria morale, il vuoto stordente, il nulla a cui un personaggio incline alla sbandamento come Rourke non avrebbe saputo resistere. Se poi paragoniamo il suo percorso rispetto a quello compiuto da altre due star emergenti nello stesso periodo, le specularità e le simmetrie dei destini diventano palesi. E dire che Tom Cruise e Matt Dillon facevano parte con Mickey della factory di Francis Ford Coppola, in quanto entrambi erano stati I ragazzi della 56esima strada, prima che Dillon e Rourke formassero la struggente coppia di fratelli alla deriva tra le nuvole in bianco e nero di Rusty il selvaggio. Tutti e tre accomunati di volta in volta dalla dicitura di sex symbol sfacciati, ribelli a un sistema di valori obsoleto eppure figli di una società incapace di proporre valori alternativi e che dunque azzerava il significato della ribellione. Tom Cruise ha scelto di diventare il figliol prodigo, la gallina dalle uova d’oro del sistema-Hollywood continuando ad alimentare la mastodontica macchina dello star system, Matt Dillon ha scelto un profilo più defilato rimanendo attaccato alla luce delle stelle ma concedendosi derive più dark (Drugstore Cowboy di Gus Van Sant, è stato perfino l’alter ego di Bukowski nella versione cinematografica di Factotum).Chi ha percorso fino in fondo la strada che porta lontano delle stelle e molto vicino al fango della caduta è stato proprio Rourke e ancor prima che il film di Aronofsky abbia inizio, quel vederlo di spalle, seduto, con la schiena piegata, appartata dal rumore ormai lontano del pubblico che ne incita le gesta, è una dichiarazione di poetica attoriale di rara onestà, l’ammissione di quello che siamo stati e che siamo diventati e di come sia possibile arrivare alla verità attraverso la rappresentazione dell’artificio perché artificiale è il modo in cui si costruisce la carriera di un divo cinematografico e artificiale è il mondo del wrestling, dove la violenza si simula agli occhi del pubblico, ma si vive sul corpo di chi combatte.
“Devo tornare a boxare perché mi sento sulla via dell’autodistruzione e non sento rispetto di me stesso come attore…”
Così diceva nel 1991, quando decise di abbandonare temporaneamente il cinema, esplicitando come quella serie di incontri (peraltro tutti vittoriosi, se non di prestigio, a parte un pareggio) fossero principalmente contro se stesso, un passaggio obbligatorio per passare dalla gloria degli anni Ottanta alla consapevolezza di un combattente, seppur di wrestling.
“Tutti e tre accomunati di volta in volta dalla dicitura di sex symbol sfacciati, ribelli a un sistema di valori obsoleto eppure figli di una società incapace di proporre valori alternativi e che dunque azzerava il significato della ribellione”: come hai ragione!
Il film è forte, toccando i nervi della parte oscura del fallimento e dell’autodistruzione di ciascuno, proprio per la corrispondenza del simbolo con il documento.