I cineasti che ci piacciono, viene ogni tanto da categorizzarli, ordinarli, incasellarli in qualche preciso cassetto/file mentale, tanto per tranquillizzarci e dare un senso possibile al troppo che si vede, si sente, si ama e si dimentica. E allora ci stanno quelli che si pongono perennemente in ascolto della realtà, o di quel che ne resta: la testimoniano, la restituiscono, la rivelano. Scuola baziniana, rosselliniana, forse addirittura herzoghiana. Vengono poi quelli che si (re)inventano, ostinati, il cinema: sperimentano tecniche, creano forme, rinnovano linguaggi, si chiamino Godard, Lucas/Coppola o Tsui Hark. Ci sono i cultori dell’inquadratura, quel rettangolo sacro le cui conformazioni e metamorfosi sono il banco di prova morale della necessità di quest’Arte friabile e minacciata. Antonioni, Ozu/Mizoguchi, Edward Yang. E non trascuriamo chi fa spettacolo, mescola epica, velocità (lentezza), sentimento, filosofia, e diventa John Woo, John Boorman o Steven Spielberg.
A volte due delle categorie vanno a incontrarsi in qualche regista miracolato. Che però si mescolino, ed esaltino reciprocamente, tutte e tre, è più unico che raro. Succede anche questo, a volte: ed esce fuori, per esempio, Michael Mann. Potremmo finirla anche qui, ma forse vorrete sapere qualcosa di Miami Vice. Si saprà che il film sembra avere con il suo corrispettivo televisivo un legame più nominalistico che sostanziale. Una volta detto che il tenente Castillo ha il faccione di Barry Shabaka Henley, invece del profilo segaligno di Edward James Olmos, sì sarà capito tutto. In realtà la vera connessione sta nella natura sperimentale del progetto MV che, se nel 1984 si traduceva in un giant leap per la stilistica telefilmica, nel 2006 pianta una pietra miliare sul cammino della speranza che il cinema sta percorrendo nell’era digitale. Non solo. Mann, trentennale frequentatore del mondo televisivo, opera con grande intelligenza nel dialogo tra stilizzazione narrativa filmica e poetica del flusso (ex)catodico. Per questo il suo Miami Vice inizia in medias res e termina altrettanto “aperto”, come in un “non finito” dalle innumerevoli risonanze.
In mezzo, non c’è che da rimanere basiti, di fronte a un molosso da 135 milioni di dollari sbozzato come un pannello di action filming, un saggio di action-noir esploso, che sparge per lo schermo tali e tante schegge di futuro da illuminare la via per gli anni a venire. Senza nasconderci un non so che d’inadeguatezza, al pensiero di quanti sensi abbia a disposizione Mann, di come riesca a percepire tali e tanti momenti di preziosa e privilegiata verità e coglierli nell’obbiettivo della sua Viper. Forse solo Terrence Malick gli si può accostare, tra i coetanei. Se Malick è però il poeta consapevole e l’artista sospeso fuori dal tempo, Mann è il pensatore per eccellenza della contemporaneità, il cantore della metropoli come paesaggio dell’anima, l’autore che ha visto oltre la fine del cinema e ne ha immaginato uno nuovo. [ottobre 2006]