CONVERSAZIONE CON LA REGISTA
di Maria Giovanna Vagenas
Vorrei chiederti come è nata l’idea di Memories of a burning Body e come hai trovato le tre meravigliose protagoniste del film. Come hai lavorato alla scrittura di questa pellicola dal contenuto così forte che ci coinvolge profondamente anche grazie alla sua messa in scena teatrale.
Memories of a burning Body è un film molto difficile da raccontare in poche parole. L’idea nasce da una conversazione che non sono mai riuscita ad avere con le mie nonne. Credo che questa pellicola sia nata dai molti dubbi e dalle domande che non ho mai avuto l’opportunità di chiarire con loro. Volevo, per esempio, sapere se nel corso della loro vita avevano goduto della loro sessualità. Entrambe le mie nonne hanno avuto molti figli. La mia nonna materna è morta. La mia nonna paterna è ancora viva, ha 96 anni. Diciamo che sono riuscita a recuperare l’ultimo brandello della sua memoria fatiscente. La mia nonna paterna è persino presente nel film. È una delle sue voci. Quando ho iniziato a parlare con lei improvvisamente mi sono resa conto che non sarei stata in grado di rispondere a tutti i dubbi che avevo in generale conversando solo con lei. Così ho iniziato a parlare anche con delle altre donne.
Bisogna ammettere che non è facile parlare di queste cose con nessuna queste donne perché si tratta di questioni molto intime, molto personali. Nel film si percepisce, dal modo in cui le donne si esprimono, che provengono da contesti sociali diversi…
Sì, è vero, ho parlato con donne provenienti da diversi contesti. Con alcune mi sono resa conto che non avrei potuto continuare, non sarei potuta andare avanti, altre se ne sono andate, altre ancora hanno mi detto: “Non me la sento di parlare di queste cose”. In altre parole, è stato un processo naturale in cui le donne iniziavano a parlare con me e quando si sentivano a loro agio, continuavamo a conversare. Ovviamente, molte di loro mi hanno detto: “Per favore, non voglio uscire allo scoperto, non voglio essere riconosciuta, cambia il tono della mia voce.” per paura di ferire in qualche modo i loro cari, perché sapevano che stavano raccontando cose molto intime. È molto più facile parlare nell’anonimato, si può dire quello che si vuole invece, quando si è filmati, ci si limita, è come se si agisse in un personaggio che ci costruiamo dall’esterno.
In effetti questa è la difficoltà del documentario; dal momento in cui si piazza un obiettivo davanti a qualcuno, il suo comportamento cambia…
Si, e proprio così; le persone iniziano ad agire in modo diverso. Il fatto di restare nell’anonimato ha dato a queste donne una certa libertà per potere parlare di questi temi. Anche il periodo specifico in cui ho svolto la ricerca, durante la pandemia, è stato determinante visto che tutte queste donne, essendo anziane, erano chiuse in casa perché avevano paura di ammalarsi. La famiglia non le lasciava uscire. E non vedevano nessuno. Abbiamo parlato via Zoom e in una combinazione di zoom e telefono. Tutte queste conversazioni si sono trasformate in un vero e proprio processo terapeutico, perché offrivano alle donne l’opportunità di parlare della solitudine, della paura e della morte. E poi ci siamo spinti anche verso altre addentrati tematiche che hanno permesso loro di liberarsi di tutto quello che avevano vissuto.
In che modo hai scelto e selezionato quali di queste voci e quali di queste storie avrebbero fatto parte del film?
A parlare sono essenzialmente tre donne, cioè quelle che mi raccontano la maggior parte della loro storia. Ma in totale ci sono otto voci diverse. Ho parlato con più di otto donne, ho parlato con 15 o 18 donne. Alla fine del film c’erano otto voci femminili diverse, tre che sono quelle con cui sono riuscito a portare avanti una conversazione più complessa, cioè ad approfondire le loro storie e a stabilire un rapporto personale con loro. È stato molto difficile riuscirci con tutte ma con queste tre, ce l’ho fatta. Ma è stato anche molto bello incontrarle nel loro proprio ambiente. Ho trovato molti punti in comune fra di loro nel modo in cui si sentivano nelle diverse fasi della loro esistenza, anche se alcune di loro non avevano molte risorse espressive, mentre altre erano in grado di condividere molto più chiaramente ciò che avevano vissuto. Tutto quanto riguarda la sessualità non cambia molto a seconda della situazione sociale. Penso che le donne di tutte le classi abbiano affrontato, più o meno, gli stessi problemi
L’attrice protagonista è meravigliosa!
Di fatto Sol Carballonon è un’attrice. Non ha mai recitato in vita sua. Di professione è ballerina, quindi ha una bella presenza. Questa è stata la prima avventura di recitazione per lei. Non la conoscevo. Ho fatto un casting con varie donne e nel momento in cui l’ho vista e scoppiata subito una scintilla fra me e lei. È stato molto bello lavorare con Sol.
Dopo questa fase di ricerca sul campo, come si è sviluppato il processo di scrittura della sceneggiatura? Come hai abbordato la struttura narrativa del film?
Dopo circa due anni e mezzo di ricerche, ho iniziato ad ascoltare le registrazioni che avevo fatto, poi ho selezionato i pezzi che mi sembravano più interessanti, scegliendo le tematiche e mettendo insieme una sorta di scaletta dei vari soggetti. Mescolando queste voci fin dall’inizio tutte le storie sulle mestruazioni, sul primo orgasmo, sul matrimonio e sulla maternità sono state organizzate seguendo una linea tematica. In seguito ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. Da lì in poi ho continuato a scremare. Alla fine ho scritto una sceneggiatura che combinava le voci con delle storie visuali. La narrazione è una combinazione di questi due elementi: le testimonianze reali ed una messa in scena un po’ più vicina alla fiction.
Nel film seguiamo l’ attrice principale, che in un certo senso è l’incarnazione di tutte queste donne, ma allo stesso tempo c’è una circolazione continua di altre immagini e di donne diverse in varie fasi della loro vita che entrano ed escono, per così dire, nello spazio della vita di questa donna principale. Questa struttura narrativa è davvero sorprendente; pur fluendo in modo molto naturale, è una costruzione piuttosto complessa.
Sì, credo che sia stata una bella sfida, ma penso che l’ispirazione per la messa in scena sia venuta dalle mie conversazioni con loro. Sono venute fuori delle frasi molto significative. Una di queste donne, per esempio, mi disse che il tempo non è lineare, è come una bolla e che noi riviviamo i nostri ricordi nel momento in cui li raccontiamo. Un’altra donna mi disse che forse potremmo perfino cambiarli questi ricordi. Bello, vero? Perché in effetti ci sono anche dei fatti che vengono inconsciamente modificati, diventando come noi vorremmo ricordarli. La messa in scena si prestava molto bene per visualizzare il modo in cui i ricordi abitano il nostro corpo e il nostro spazio. E da lì è nata l’idea di lavorare in un unico luogo dove il presente e il passato vivono e convergono nello stesso spazio, dove la linea del tempo è senza tempo, e non segue una cronologia canonica. Inoltre volevo raccontare appunto come riviviamo i fatti quando li ricordiamo e come, di fatto, ricordiamo ciò che vogliamo ricordare.
Allo stesso tempo, trovo molto interessante che il punto di vista principale, in ogni caso, sia quello di una donna che ha già 70 anni. La stessa protagonista, ad un certo punto, dice: “Non voglio essere una donna vecchia!” Mi è piaciuto molto e mi ha colpito modo questo modo di affrontare la vita. La vediamo buttare via tutte le cose che non le servono più e tiene solo ciò che vuole tenere. Tutti questi dettagli forse non sono realistici, ma sono decisamente autentici.
Che bello il tuo modo di percepire il film! Penso che dopo una certa età gli esseri umani, in generale, diventino invisibili. Voglio dire che quando smettiamo di essere utili e produttivi improvvisamente cominciamo a essere un peso per gli altri, non siamo più in primo piano, smettiamo di essere i protagonisti della nostra vita. Nel film invece queste donne anziane rivendicano il diritto di essere le protagoniste della propria vita. “Sono viva e finché non muoio sono viva, non diventerò una vecchia!” È una bella affermazione. “Io esisto. Non sono invisibile. Certo, non sono una santa!” In effetti, le nostre nonne le vediamo come se fossero delle sante vergini che non possono più godere della loro sessualità e che sono lì solo per gli altri. Invece queste donne dicono: “Ho la mia vita e ho l’intenzione di viverla pienamente” e questo atteggiamento riflette una grande speranza.
Trovo sorprendente il fatto che tu, che sei ancora molto giovane, sia riuscita a metterti nei panni di una serie di donne anziane.
Sì, credo di dovere questo alla mia capacità di ascoltare attentamente ciò che volevano e avevano bisogno di raccontarmi, perché è una cosa che non hanno mai fatto. Ho chiesto loro se avessero mai parlato con le loro figlie o con le loro madri o sorelle di tutte queste cose e mi hanno risposto: “No, mai!” Penso che siamo anche in un momento storico- sociale in cui possono permettersi di parlare. Certo, prima non era così, ma ora ho percepito il loro bisogno urgente di parlare e di raccontare le loro storie.
Finalmente. Era ora!
Proprio così. Penso che quello del film era il momento giusto e il contesto giusto in cui hanno coraggiosamente osato raccontare le loro storie pur restando anonime. L’anonimato di fatto ha permesso loro una certa libertà e io mi sono semplicemente seduta li ad ascoltarle.
All’inizio del film vediamo sullo schermo te e tutta la troupe mentre si prepara al rodaggio. Perché hai deciso di mostrarci questo preambolo in cui riveli l’artificio della messa in scena come se si trattasse di un’opera teatrale?
Per me era necessario presentare l’universo che avremmo raccontato visto che le donne avrebbero parlato delle loro storie restando anonime. Volevo che il pubblico capisse subito che quello che avrebbe visto era vero per potersi mettere nei panni delle protagoniste. Volevo anche evidenziare il dialogo tra le testimonianze reali e la mia messa in scena, che è più vicina alla finzione. Volevo che il pubblico non dimenticasse mai, che queste storie sono reali e che le voci di queste donne, le loro esperienze, fossero al centro del film.
In termini di colori, luce, scenografia ad abbigliamento il mondo che crei è molto vivace, quasi fiabesco. C’è un’atmosfera quasi festosa anche nei momenti difficili…
Questa è stata una decisione collettiva, un lavoro di gruppo con il direttore della fotografia e il direttore artistico con i quali abbiamo discusso a lungo per trovare il linguaggio audiovisivo che meglio rappresentasse le storie che volevamo raccontare. Per me era molto importante che questo mondo fosse luminoso e che avesse a che fare con i racconti che ho ascoltato. Quando le nostre nonne ci raccontano la loro vita e i loro aneddoti, di solito abbiamo l’impressione di ascoltare una fiaba. Ecco, era proprio questa sensazione che ho voluto ricreare.
Potresti parlarmi della produzione del film? Dato il soggetto e l’approccio estetico che hai scelto immagino che sia stato arduo raccogliere i fondi necessari per realizzarlo.
Fare film in Costa Rica in generale non è così facile, abbiamo fondi molto limitati e dobbiamo ricorrere a delle coproduzioni per potere accedere a dei fondi internazionali. Questa è una coproduzione tra la Costa Rica e la Spagna. Abbiamo ottenuto il Fondo nazionale costaricano, il Fondo nazionale catalano e il Fondo Ibermedia per produrre il film. Abbiamo fatto domanda come documentario, per questo i fondi erano più limitati. E poi abbiamo fatto uno sforzo per finanziare il film anche a livello internazionale. Memories of a burning body era un film complesso da difendere. È sempre stato un problema, perché è molto difficile esprimere a parole un film come questo. Durante la fase di sviluppo è stato molto difficile per noi spiegare il nostro progetto. All’epoca avevamo sviluppato un teaser per far sì che la gente potesse capire un po’ come sarebbe stato il film alla fine. È ancora difficile fare dei film in America Latina, in Costa Rica in particolare, perché non c’è una legge sul cinema, perché non ci sono finanziamenti, c’è pochissimo sostegno statale e bisogna lavorare come si puo, per cui ritengo che siamo stati molto fortunati di poterlo realizzare.
Qual è stata la difficoltà maggiore che ha incontrato durante l’intero processo di fabbricazione della pellicola?
La cosa più difficile è stata quella di difendere una storia del genere: un argomento difficile, soprattutto la messa in scena era particolarmente complessa e doverla difendere a volte mi ha fatto dubitare anche di me stessa. Ogni volta che ci si scontrava con un no perché non si capiva come sarebbe stato il film, l’insicurezza cominciava a farsi strada. Ovviamente, dato che si trattava di un film complesso sia da un punto di vista tematico che formale, mi sono spesso chiesta: vale la pena di farlo? Vale la pena di farlo in questo modo? Questa è stata la cosa più difficile da affrontare.
Hai studiato cinema in Costa Rica?
Mi sono laureata in Produzione audiovisiva all’Università del Costa Rica e sono andata all’estero con l’intenzione di studiare cinema. Ho dovuto studiare il tedesco perché vivevo in Germania ma quando sono riuscita ad impararlo ho deciso di non volere più frequentare una scuola e ho iniziato subito a fare film.
Ci sono dei registi che t’ispirano particolarmente in questo momento?
Ultimamente devo ammettere che mi piacciono molto i film realizzati da registe donne, come Alice Rohrwacher, per esempio. Lazaro Felice mi e piaciuto molto. Ammiro delle registe come Lynne Ramsay e Andrea Arnold ma anche dei registi come, per esempio, Michel Gondry, che combinano degli elementi fantastici con la realtà.