Per cominciare a parlare di Melancholia, un film verso il quale si prova un sentimento di disarmante impotenza nel cercare i termini che meglio possano esprimere il suo impatto emotivo, ho deciso di utilizzare una considerazione che il giornalista musicale Mark Pytlik ha utilizzato per Homogenic, album tra i più intensi ed introspettivi della cantautrice islandese Bjork, la cui esperienza artistica e umana è stata indissolubilmente legata a quella di Lars von Trier (Dancer in the dark). Pytlik dice di quel disco che “…intrecciava coraggiosamente nella trama del suo tessuto anche le cicatrici dell’esperienza personale… aveva il suono di un’anima disperata e appassionata che lasciava le mani dal volante e affidava la strada alle mani del destino…”.
Il destino, nell’ultimo Von Trier, si chiama Melancholia ed è un gigantesco pianeta che sta per entrare in collisione con la Terra per distruggerla completamente e definitivamente, spazzando via con essa anche le vite dei piccoli uomini che la popolano e che si vedranno negata qualsiasi possibilità di sopravvivenza, senza poter fare affidamento negli asettici e aridi calcoli della scienza sulla probabilità di evitare l’impatto, e con l’unica opzione di abbandonarsi all’istintiva necessità di portare in salvo se stessi e le persone amate. Ma anche l’amore perde il suo valore salvifico e diventa una forma di intelligenza del cuore per cui è possibile comprendere l’ineluttabilità degli eventi e porsi di fronte ad essi in tutta la fragilità che ci appartiene in quanto imperfetti e vulnerabili essere umani e che, paradossalmente, consente l’ultimo sussulto vitale in opposizione a forze distruttive che sfuggono al nostro controllo.
La situazione limite del disaster movie si presta perfettamente ad evocare questo senso di precarietà e confusione, ma la vera angoscia che attanaglia costantemente e implacabilmente ogni fotogramma di Melancholia, in un crescendo che stringe in una morsa sempre più stretta, si trova ovviamente su una galassia ben più gigantesca e sconfinata di quella che è in grado di contenere qualsiasi pianeta, anche il più enorme.
Una galassia impenetrabile ed indecifrabile di cui non conosciamo il linguaggio e nei confronti della quale, come faceva dire Ingmar Bergman a Erland Josephson in Scene da un matrimonio a proposito del linguaggio dell’anima, “siamo degli analfabeti”. L’anima in questo caso appartiene a Justine sul cui viso afflitto, sconfitto e dal biancore lunare appassito, si apre il mondo delle immagini di Melancholia. Un incipit per cui ci troviamo immediatamente dentro quel sentire il vuoto imminente senza difese o alibi o giustificazioni e, stilisticamente parlando, senza quel formalismo compiaciuto e manipolatorio di cui spesso Lars viene accusato, non comprendendone anche in quel caso il disperato vuoto esistenziale che vi si cela dietro, l’aggancio profondo con una riflessione sulla condizione umana che, come nel caso del citato commento sull’album di Bjork, affonda le sue radici nell’esperienza personale.
Una volta confrontatosi con la più audace e aggressiva provocazione (Antichrist), Von Trier si ritira e si riduce a mostrare le cicatrici senza più la maschera di uno stile estetizzante e fin dall’esordio ci annuncia che tutto è già accaduto, che siamo nel Post – sempre restando sul terreno delle citazioni bjorkiane – di un mondo raccontato attraverso delle storie che non hanno più bisogno di intreccio; personaggi che non richiedono motivazioni psicologiche; immagini che si denudano fino a rivelare il nucleo della rappresentazione, come forse accadeva solo in Idioti, l’altro suo film più personale, disperato e spietatamente sincero. In quel caso però si metteva in scena il fallimento e la conclusione dell’esperienza Dogma, parafrasandola attraverso l’esperienza di un gruppo di giovani danesi che volevano sconvolgere le regole della vita borghese servendosi della provocazione più spinta (fingersi ritardati mentali). Non a caso infatti il film successivo sarà Dancer in the dark, musical-melodramma che, con le sue cento cineprese digitali e molte artificiosità narrative, negherà completamente i principi di un cinema da macchina da presa a spalla e opposto alla falsità dei generi. Melancholia abbandona tutte queste sovrastrutture intellettuali, una zavorra senza la quale Justine, dentro le cui sembianze da ex-bambina prodigio e diva hollywoodiana sbiadita di Kirsten Dunst si rivela l’anima disperata e appassionata di Von Trier, può vagare inquieta per l’immensa tenuta dove si celebra nella prima parte la mascherata del suo matrimonio: una sequenza lunghissima permeata di un senso di oppressione e di superfluo che sembra preparare al progressivo spogliamento estetico e narrativo della seconda parte.
E dopo averci mostrato l’inconsistenza e la precarietà delle relazioni – è un colpo sordo al cuore il modo in cui tramonta l’appena celebrato matrimonio tra Justine e il neo-marito, da una complicità di superficie fino ad un silenzio senza appello e senza speranza – Lars tramuta l’irrequietezza del suo alter ego femminile in uno stato di profonda ed insondabile depressione, cosi personale e privata da non permettermi di darne un’idea nemmeno usufruendo della più vasta, sfaccettata e articolata gamma di espressioni. Rimane il corpo della Dunst che rifiuta qualsiasi contatto, che non è in grado di camminare, di muoversi, di parlare, offrendoci un punto di vista ravvicinato su quello che Giuseppe Berto, in un suo memorabile romanzo, ha chiamato “il male oscuro delle parole”, che paralizza la psiche e il cuore in una condizione senza tempo, senza più la capacità di confrontarsi con la realtà al di fuori del propio mondo interiore, sul baratro della dissoluzione. Anche nel Lars Von Trier cineasta si avverte questa preoccupazione di perdere il controllo sulle proprie immagini, esposte nella loro inconsistenza e nudità a qualsiasi forma di distorsione o manipolazione come di fatto avviene nei veri disaster movie hollywoodiani, infarciti di effetti speciali, ma carenti di tensione drammatica o di atmosfera.
Al contrario, Lars ha voluto ricercare, soprattutto nella parte che conduce verso la catastrofe, un concetto di tempo, di spazio, di natura in cui è possibile l’ultimo spiraglio di spiritualità e di sacralità, un contatto con Andreij Tarkovski, tra tutti i cineasti, quello che forse si è saputo avvicinare di più a formulare un alfabeto dell’anima, traducendo i segni della vita interiore e della percezione della realtà naturale in immagini così intense, cosi sentite, così compiute in se stesse da escludere qualsiasi tentativo di spiegazione razionale, di incasellamento negli schemi del linguaggio verbale.
Eppure,in un clima oscillante tra disperazione e annullamento, paura e rassegnazione, smarrimento e resa incondizionata, c’è la possibilità di una reazione, ultima, definitiva e inderogabile che offre per un attimo la consapevole illusione, non di essere padroni del proprio destino, ma almeno di potersi preparare alla fine, trasformando l’attesa passiva in risposta creativa: la fantasia come luogo ultimo in cui nascondersi quando l’identità personale si riduce in frantumi, ultimo mascheramento che non serve ad evitare, o a negare, la fine, ma ad accoglierla in maniera più dolce. E se, come sempre, la parte problematica, complessa, antagonista e dolorosa di questo sentire la precarietà dell’esistenza passa per il tramite dell’anima e del corpo femminili, il momento prima della fine è tutto riservato al mondo dell’infanzia, al nipote di Justine, al patto che ha fatto con la zia indistruttibile, la costruzione di quella grotta segreta dove nessuna forza distruttiva potrà scovarli. Dentro quella capanna essenziale fatta di legni intrecciati Justine condurrà, in un gesto che racchiude tutta la forza di una reale solidarietà umana (reale perché non strumentalizzata ai fini di un obiettivo, neanche della salvezza personale), non solo se stessa e il nipote, ma anche la sorella Claire, che dopo essersi affannata per tutta la prima parte del film a gestire l’organizzazione di un matrimonio di cui Justine già conosceva l’esito, si affanna per la parte finale a cercare scampo alla distruzione che Justine sa già essere inevitabile. Un affanno che è espressione di un disperato amore materno e il crollo di tutte le difese, lo straripamento del fiume in una valle di lacrime, un altro capitolo delle Scene da un matrimonio bergmaniane che rende il finale ancora più struggente, triste e assoluto.
Mi piace in fondo pensare che anche Lars sia come quel bambino che a volte riesce a trovare una fuga dalla sconforto nascondendosi dentro una grotta segreta e mi auguro che ancora per molto quella grotta possa identificarsi con il Cinema e la sua malia.
un pezzo saggistico, molto bello Fabrizio!
il pezzo è bello, il film a mio modesto parere, decisamente meno