Camillo Bellocchio, il fratello gemello suicida di Marco non è stato mai solo un fantasma, un ‘evocazione, un’ idea astratta , anche prima che il fratello cineasta lo facesse apparire, nella concretezza della sua fisicità , dentro le immagini di repertorio, gli home movies utilizzati per questo Marx può aspettare, documentario ibrido tra autobiografia, immaginario cinematografico e rapporto con il tempo e la Storia, un’interazione a più livelli narrativi ormai consolidata nel cinema del reale almeno degli ultimi vent’anni, cominciata con la lettura del diario della madre di Alina Marazzi (voce e sguardo) in Un’ora sola ti vorrei e culminata con la demistificazione dei miti fondatori della propria identità da Mario Balsamo (corpo e sguardo, in Noi non siamo come James Bond/ Mia madre fa l’attrice) .
Camillo non ha mai vissuto la censura o la rimozione toccata in sorte , ad esempio, ad un personaggio, in quel caso di fantasia, come il Sebastian Venable di Improvvisamente, l’estate scorsa, la piece di Tennesse Williams che , quando fu adattata per lo schermo da Joseph Mankiewicz , vide completamente cancellata, se non per qualche fotogramma del particolare di una mano o dell’abito, la figura del giovane dandy omosessuale , ucciso dalla ferocia di un gruppo di ragazzini adescati sulle torride e assolate coste spagnole. Al contrario, Camillo è sempre stato presente nei film che Bellocchio ha realizzato e in cui spesso ha rielaborato i tormenti di una famiglia numerosa ed eterogenea, segnata nel profondo da ferite di ogni tipo (la malattia psichica di un un altro fratello, la sordità di una sorella ): Gli occhi, la bocca , film di transizione del 1982 in cui stava imboccando la strada più apertamente psicanalitica e onirica della collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli, potrebbe in queso senso apparire come una sorta di anticamera trasfigurata della storia dal vero,con Lou Castel che interpreta sia l’alter ego di Bellocchio che il suo gemello defunto , in un surplus di immedesimazione visto che qui i fratelli sono completamente identici , mentre Marco e Camillo si differenziavano, in particolare per l’attitudine sportiva e la conseguente, maggiore prestanza fisica del secondo.
Proprio in quel film il personaggio di Castel, attore cosmopolita di successo richiamato nella sua terra d’origine proprio dal suicidio del gemello, pronuncia la battuta che Camillo disse veramente a Marco quando quest’ultimo, in pieno, ribollente clima sessantottino, lo invitò a cercare il senso della propria vita nel darsi alla causa della rivoluzione proletaria : e quella risposta ad una sollecitazione, “Marx può aspettare”, a cui poco dopo fa seguito la scelta radicale di togliersi la vita , diventa l’eco , ripetuto e amplificato negli anni successivi (in fondo già negli anni ’80 , Bellocchio metteva criticamente in discussione tutto il periodo dell’impegno politico deflagrato in un lento, costante tramonto del sol dell’avvenire, e forse per questo motivo Palombella rossa mi sembra il film più “bellocchiano” di Nanni Moretti) di un rimpianto privato e intimo, legato alla propria tragedia familiare, ma probabilmente anche ad una mancanza di visione a lungo termine, di progettualità, di costruzione delle basi , per non rimanere disincantati e isolati, una volta esaurita la spinta dell’urgenza interventista e situazionista. Camillo diventa infatti anche l’espressione di una famiglia , i Bellocchio, che ne raccontano la storia, parlandone tra di loro e con le nuove generazioni ( Marco con i figli Elena e Piergiorgio i quali gli fanno delle semplici obiezioni che svelano le lacune e le reticenze del padre su quel fatto tragico), con una scelta di rappresentazione coraggiosa e a tratti quasi impietosa nel mettere in evidenza le contraddizioni, le responsabilità e l’indifferenza di tutte le persone chiamate a dire e ricordare: Piergiorgio, il fratello più grande a autorevole, intellettuale e critico letterario, Alberto, il fratello che, con grande capacità auto analitica, si presenta come il mediatore della famiglia, le sorelle Letizia e Maria Luisa , gia apparse in questo destino incrociato di dipendenza come due comari di uno sconsacrato culto domestico in Sorelle Mai; mancano i fratelli che non ci sono più: Tonino , che appare un po’ come il collante equilibrato e meno schiacciato dal proprio ego , nonché testimone in presa diretta di quella morte, visto che fui proprio lui insieme alla moglie Pia( che racconta lo sconvolgente,intensissimo momento del recupero quasi “cristologico” del corpo di Camillo ancora attaccato alla corda) e a Letizia a trovare il fratello impiccato nella palestra dove lavorava .
Ma sopratutto non c’è più Paolo ,il folle urlatore che faceva già la sua devastante comparsa come carnale fantasma della memoria in Salto nel vuoto , dove c’è la riproduzione allucinata ma fedele di un ricordo dei piccoli Bellocchio, con questo fratello molto più grande a gridare di notte per i corridoi della casa , fatto che ha evidentemente influito sulla loro psiche e sul loro immaginario(in particolare di Camillo, che fu suo compagno di stanza per un periodo). Paolo è infatti anche la versione tragica e quasi parossistica del bestemmiatore matricida de L’ora di religione ( che ha le fattezze, con effetto ancora più perturbante, di Donato Placido, congiunto più schivo e inedito di Michele); e la già potentissima scena del film in cui ingiuria con disperazione la Madonna e Dio, su commosso incoraggiamento del fratello interpretato da Sergio Castellitto che lo vorrebbe sbloccare dal silenzio autistico in cui si è rinchiuso, viene inserita ,dal come al solito magistrale montaggio di Francesca Calvelli ,tra suggestione e pensiero, all’interno di Marx può aspettare in un momento di collegamento tra le figure di Camillo e Paolo , entrambi portatori di un male di vivere e di una richiesta d’aiuto in qualche maniera rimasti non considerati e inascoltati. Nel caso di Camillo emerge , dalle testimonianze di tutti , l’irrequietudine sublimata in una spensieratezza, nella rivendicazione di una voglia di vivere , adombrata solo da una certa malinconia, che non lasciava spazio al presentimento di un gesto cosi estremo, ma è a questo punto che fratelli e sorelle sembrano avvitarsi intorno alla memoria ancora calda e sanguinante di uno di loro , in una continua epifania della perdita : dalla parte maschile viene descritto, seppur con affetto, come un mediocre senza nessuna particolare attitudine o talento ( in particolare rispetto a Marco e Piergiorgio, ma anche ad Alberto che sottolinea come lui abbia saputo distinguersi e trovare una strada autonoma dai fratelli più brillanti e di successo) e la sua fine viene letta nell’essersi arreso ad un fallimento esistenziale ; per le donne, invece , rimane una sorta di santo , puro , l’angelo Camillo , l’espressione pulita ed aperta che pure emerge dalle foto e dai filmati, tanto che Letizia ancora non accetta che sia stato suicidio ,nonostante l’evidenza del ritrovamento , con un biglietto lasciato per la famiglia e una lettera alla fidanzata dell’epoca , Angela,in cui riconosceva di sentirsi vinto anche dal punto di vista sentimentale. Già in questa dicotomia di ricordi, nella necessità di differenziarsi e nell’ammissione indiretta dello stesso Bellocchio di aver voluto probabilmente sublimare e elaborare quel trauma nel suo immaginario filmico più per se stesso che per comprendere le motivazioni dietro l’atto compiuto da Camillo, risiedono una critica precisa all’appartato familiare cattolico e borghese dell’illuminata provincia piacentina ,alla stessa stregua del ritratto disfunzionale, più isterico, deviante e selvaggio , de I pugni in tasca, con il tono iconoclasta e spietato del 1966, che si è fatto dolente e riflessivo. Il fatto che ciascuno venga intervistato quasi sempre in inquadrature solitarie e riporti versioni con sfumature diverse di una vicenda così privata, è ancora un segno discrepante rispetto a ciò che invece di unire ha laicamente crocifisso al muro del pianto del proprio egoismo, sempre e comunque anche generazionale e politico:la non empatia nei confronti del dramma personale ed esistenziale di Camillo diventa il microcosmo della mancata realizzazione di una primavera collettiva , di una comunità fondata sul gesto , sull’ascolto , sul contatto e non solo sull’adesione astratta a un’ideale ( base sulla quale Bellocchio ha poi raccontato la deriva nevrotica e individualista della società).
Gli stessi due interlocutori esterni rispetto alla famiglia, presenti nel film, lo psichiatra Luigi Cancrini e Don Virgilio Fantuzzi, ritornano alla dimensione singola e privata analizzando, dai rispettivi punti di vista , le pulsioni, i sogni e i bisogni del “doppio” Bellocchio: per Camillo, secondo Cancrini, la necessità di essere visto e inquadrato (anche letteralmente: provò a chiedere a Marco una confusa possibilità nel mondo del cinema) in primigenia forma dallo sguardo della madre, accecata dalla devozione cattolica (ed è cieca la madre de I pugni in tasca che non vede il disagio etero ed autodistruttivo del protagonista Alessandro) ; per Marco , secondo Don Fantuzzi, una sorta di confessione/espiazione attraverso la materialità della cornice dello schermo , partendo dal presupposto che l’ateismo di Bellocchio rifiuta la dimensione metafisica, di una “colpa” che ha a che fare con il proprio egoismo e con un ‘aridità intellettuale di fondo, riscattata dalla generosità creativa e dalla visione introspettiva che denudano e smascherano le ossessioni, e aprono a una trasformazione.
Come nella scena, situata in un momento del film che non sveleremo, della foto di gruppo dei fratelli Bellocchio scattata nel tempo presente, in cui Piergiorgio invita con un gesto della mano le labbra di Letizia ad essere più sorridenti.
Un perpetuo ricordo di come il segno, gesto, parola o immagine che sia, può raccontare la verità di un momento e al tempo stesso manipolarla, eluderla, renderla più umanamente tollerabile e amaramente artefatta. E proprio nel paradiso immaginato da Letizia non c’è più spazio per nessun ideale o tensione trascendente, o, più prosaicamente, per nessun hasta la victoria : solo il capo chino di fronte al rimpianto di un abbraccio che unisce la vita che abbiamo immaginato con quella che abbiamo vissuto.