Che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta possa essere esistito al cinema un piccolo fenomeno di imperialismo culturale italiano, sembra essere una nota beffarda.
Eppure ne ritroviamo tracce nei film. Fosse quello definito “straccioncello” di un Kusturica – Ti ricordi Dolly Bell?, con le prime immagini erotiche disvelate da Blasetti e il tormentone dei 24000 baci del Molleggiato, è del 1981 – oppure quello di un Hayao Miyazaki che per il suo primo lungometraggio, Lupin III: il Castello di Cagliostro (1979), scelse di dotare il suo ladro gentiluomo di una magnifica 500 Fiat gialla e scoppiettante per i rocamboleschi inseguimenti lungo le strade tortuose del borgo di Cagliostro, che somiglia molto a piccole perle naturalistiche e architettoniche italiane (o della Svizzera prealpina).
Il ritorno sugli schermi di questo capolavoro dell’animazione giapponese in versione restaurata (e doppiata di nuovo per il pubblico italiano) offre l’opportunità per rendersene conto. La fascinazione estetica per lo stile e il portato storico-culturale italiano trasuda da ogni disegno. E i tratti più caratteristici della poetica fortemente idealistica di Miyazaki sono già ben presenti nella sua sceneggiatura.
Lupin III si reca con i suoi compari di sempre (Jigen e Goemon) nel ducato europeo di Cagliostro, dove pare vengano fabbricati gli enormi flussi di valute false che da secoli falsano il corso dell’economia mondiale creando conflitti e determinando le vicende della Storia. Per Lupin si tratta di un ritorno dato che già dieci anni prima, da presuntuoso giovanotto di belle speranze, aveva tentato un colpo a Cagliostro rimettendoci quasi la pelle. Allora era stato soccorso da una bambina, Clarice, figlia dell’Arciduca che oggi è costretta a sposare il perfido reggente del ducato, il Conte di Cagliostro, che sette anni prima aveva fatto uccidere i suoi genitori e preso il potere.
Sull’innesto tra interesse di ladro e coinvolgimento emotivo per la duchessina si gioca la partita di Lupin e quella del film. Alla buona riuscita dell’intreccio contribuiscono le interferenze di altri due meravigliosi personaggi della serie: la conturbante ladra Fujiko e il poliziotto, un po’ imbranato ma determinato e con buon fiuto, Zenigata.
Il film si dipana come un trascinante film d’azione: inseguimenti, scontri, intuizioni geniali … Miyazaki non si risparmia e non ci risparmia nulla, e infarcisce l’opera di perle che hanno a tratti il sapore della profezia. Oltre a dipingere con forte ironia l’irresolutezza dei consessi internazionali (ONU) e i risvolti oscuri della real-politik che spesso conducono a non-decisioni per nulla etiche, anticipa – in una versione ottimistica – quello che diventerà, qualche decennio dopo, uno degli aspetti più tipici dell’informazione-spettacolo. Infatti nel tentativo di arrestare Lupin, Zenigata scopre il traffico di valuta falsa e chiede di poter intervenire; la politica lo blocca per inconfessabili coinvolgimenti dei maggiori Stati nella vicenda; ma lui non si dà per vinto e con l’aiuto di Fujiko, all’occorrenza operatrice tv, improvvisa un inseguimento a Lupin che lo condurrà nei luoghi di produzione dei soldi falsi dove potrà con finta ingenuità domandarsi in diretta satellitare: “Mio Dio! È un traffico enorme. Che faccio? Intervengo?”. Facendosi così scudo dell’allertata opinione pubblica per compiere il suo dovere di poliziotto.
L’animatore giapponese tira fuori da un cartone seriale, al quale aveva contribuito realizzando una quindicina di episodi sotto pseudonimo, un pezzo unico curato in ogni minimo dettaglio, dall’immgine alla colonna sonora. Per noi che abbiamo imparato ad amare Lupin dagli schermi crepitanti della tv nei primi anni Ottanta è una sorta di ritorno a casa. Un luogo della memoria dotato di un immaginario non dominato dalla melassa Disney e dai binomi perfetti (buoni/cattivi) ma da qualcosa di più complesso e stimolante, per i bambini come per gli adulti di ieri e di oggi.
Il Castello di Cagliostro è stato, tra l’altro, fonte di ispirazione di una (forse anche due) generazioni di registi d’animazione giapponese, come pietra miliare verso il passaggio all’animazione “adulta” (Neon Genesis/ShinSeiki Evangelion di Anno Hideaki su tutti), un capolavoro assoluto che porta dentro le tematiche tipiche di Miyazaki (la young adult la cui purezza può salvare il mondo, il fascino del rocambolesco, lo scontro natura/industria come reazione dell’ingenuo alla ubris che condanna) mischiate a quelle più leggere dell’autore del fumetto di Lupin, Monkey Punch, più scanzonato e buffonesco