Tra le caratteristiche più esaltanti di Toni Servillo, un segno peculiare che ci dà la misura della statura e dell’assolutezza di questo attore, si distingue la possibilità di attraversare le dimensioni dello spazio e del tempo, di poter essere un interprete che parla dal passato come una voce che anticipa il futuro e che al tempo stesso
è in grado di vivere profondamente, visceralmente il presente, contenendo in sè modernità e tradizione, classicismo e sperimentazione, il piacere del sogno e della fantasia e un’accorata, lucida constazione di realtà sociali e culturali
rimosse, sepolte, arcaiche.
Sarebbe facile e riduttivo intrappolarlo dentro l’istantanea del volto simbolo di una stagione italiana che ha ritrovato vibrazioni di autorialità e riconoscimenti anche da parte del pubblico in due titoli, Gomorra e Il Divo, da lui attraversati con la sua infallibile precisione interpretativa. Perchè a Servillo appartengono tutte le stagioni, perchè è in grado di trasformarsi e di essere sempre assolutamente riconoscibile, perchè è qui, nella febbricitante attualità del cinema, ma anche nell’altrove del palcoscenico teatrale (si pensi alla Trilogia della villeggiatura goldoniana di cui ha curato anche la regia). Quello che si può riconoscere e identificare con forza è come la duplice perfomance dell’anno possa prestarsi a fare da sunto, per quanto è possibile, di una capacità di recitare di fronte alla mdp, in particolare a contatto con due sguardi così personali e lontani tra loro dal punto di vista delle scelte linguistiche e narrative: il mellifluo e imperturbabile impreditore che smaltisce rifiuti tossicci nel formalmente asettico, ma internamente disperatissimo affresco esistenzial-criminale di Garrone fà il paio con il mellifluo e imperturbabile Giulio Andreotti della virulenta e allucinata anti-cinebiografia di Sorrentino.
Questa simmetria verticalizzante, dove Andreotti diviene l’alter-ego del piccolo burocrate del potere criminale, ad un’osservazione più attenta svela le
impercettibili sfumature tra le pieghe marcate dei “caratteri” e in un gesto trattenuto, nel retrogusto amaro di un sorriso che si spegne in una smorfia, pur sotto i tratti del trucco andreottiano, lasciano scorrere lungo la schiena il brivido della consapevolezza che ci troviamo davanti a degli essere umani. A questo punto l’attore si mette in gioco con tutta la sua complessità e circolarità sulla prima linea dell’immagine, offrendosi con generosità per presenza e intensità e, nutrendo parallelamente quegli stessi personaggi e il modo in cui vengono percepiti e sentiti di uno spessore di alterità, di distacco critico, di mistero e lontananza, impedisce allo spettatore di seguire la strada rassicurante della partecipazione empatica o di assumere l’atteggiamento analitico della comprensione puramente logica di un comportamento; contraddice e annulla sullo schermo questi antitetici modi di sentire e percepire, e abbandona in uno stato di stordimento e dubbio, senza nessuna risposta, ma con molte domande.
Magari il pubblico di Servillo si riconosce nel ritratto della moglie di Andreotti che, guardando il marito con il sottofondo delle note evocative “I migliori anni della nostra vita“, passa dalla rassicurante contemplazione di un focolare domestico al salto nel buio del guardare negli occhi una mostruosità sconosciuta. Basti pensare che lo stesso pubblico, poco prima del trionfale passaggio a Cannes, aveva appena terminato di celebrare il nostro beniamino sotto ben altre vesti, quelle del malinconico, autunnale commissario alla prese con un caso di omicidio e follia nello
struggente noir La ragazza del lago, dove ancora una volta la lama sottile tra controllo esteriore e tormento interiore (con moglie malata di Alzheimer e interpretata, come nel Divo, da Anna Bonaiuto, perfetta controparte femminile) taglia una sorta di montaggio dei gesti del corpo e delle espressioni del viso, e la performance di Servillo, stavolta ripreso da un sguardo linguisticamente più debole, quello del debuttante Andrea Molaioli, acquista un valore autonomo di racconto e di espressione, tanto che quel medesimo personaggio potrebbe vivere dentro altre storie, dentro altri sguardi.
Un flash-back su un’identità attoriale così densa e ricca apre uno squarcio all’interno della scalpitante avanguardia teatrale partenopea negli anni Ottanta con il suo maggiore esponenete, Mario Martone, che tradusse nel suo passaggio al linguaggio cinematografico gli stimoli e la libertà di quell’esperienza, investendo da subito Servillo di figure problematiche e articolate, tra tutte il sindaco di Napoli a conversazione con il corvocoscienza parlante di pasoliniana memoria nell’episodio “La salita” da I Vesuviani. E fin da queste prime apparizioni le parole che ritornano con insistenza nelle frequentazioni cinematografiche di Servillo sono quelle di autorialità e autore: la ragione lampante salta agli occhi scorrendo la sua qualitativamente alta, seppur numericamente modesta, filmografia con nomi ricorrenti come il citato Martone e Antonio Capuano(per il quale è stato uno shakespiriano boss della camorra in Luna rossa) e con in testa le opere di un cineasta che ha contribuito in tempi recenti a riportare in auge il termine autore, nel bene e nel male, e del quale Servillo è stato la musa ispiratrice,il leit motiv di carne, sangue e voce. Chissà se in realtà non sia stato Paolo Sorrentino la musa di Toni Servillo e non viceversa, sta di fatto che l’attore ha attraversato come un’icona tutta la poetica sorrentiana e l’unico titolo dove non risulta protagonista, L’amico di famiglia, è come se l’avesse interpretato attraverso le deformità fisica e morale di Andreotti (in un certo senso la storia dell’usurario Geremia può considerarsi una sorta di prologo di età dell’innocenza e del mito dell’epopea andreottiana).
In fondo anche l’Antonio Pisapia de L’uomo in più e il Titta Di Gerolamo de Le conseguenze dell’amore sono un’anticipazione dell’Andreotti di Sorrentino
Servillo, anche loro mostri e divi spaccati tra la necessità di aderire a una vita e a un destino che qualcun’altro ha costruito e deciso per loro o che loro stessi si sono creati, e il bisogno di respirare, di rompere le catene del ruolo e del condizionamento, di far uscire la propria voce interiore attraverso la vulnerabilità della riflessione nuda. Il pensiero di Titta condannato a morte dalla mafia che va all’amico perduto che ripara i fili della corrente elettrica, il commiato dell’ex-cantante melodico Pisapia enunciato come un dolente monologo alle telecamere di una tv privata prima di cercare la fuga verso il mare, la lettera aperta di Andreotti alla moglie che si trasforma, nel concitato e implacabile crescendo, in un’ammissione di complicità nei fatti più oscuri e irrisolti della prima repubblica. C’è un punto nell’esistenza filmica di ognuna di queste creature poste sulla soglia tra lo straordinario e l’ordinario verso il quale non riesce a tendere neanche l’occhio di Sorrenti
no, ed è lì, in quel punto, che si rovescia la prospettiva e si impone l’epressione di un’istanza narrante libera di muoversi dentro e fuori il controllo dello sguardo, regalando l’opportunità di concilliare l’emozione e il pensiero.
Potremmo concludere azzardando che la natura reale di Toni Servillo può trovare un sua esplicazione plausibile nella concezione post-moderna di un altro termine “diva”, frequentemente relazionato e rapportato a quello di autore. Sarà perchè fra tutte le morti e le fughe e i punti di rottura della commedia umana di Servillo, l’affinità più seducente e segreta sta proprio in uno dei connubi divaautore più significativi della modernità cinematografica, quello tra Hanna Schygulla e Rainer Werner Fassbinder e nel loro finale maggiormente venato di ambiguità e tristezza: la morte fintamente accidentale di Hanna/Maria Braun ne Il matrimonio di Maria Braun, che un attimo prima di far saltare per aria il suo mondo tradisce la consapevole volontà della grandezza del suo gesto, pur nell’innocenza e nel candore di una piccola donna spaventata.
Come Titta Di Gerolamo, piccolo uomo perduto nell’enorme pericolosità di un’emozione, che ha dimenticato di non sottovalutare Le conseguenze dell’amore.