Secondo le cronache Leonardo Vitale è stato il primo pentito di mafia che abbia consentito un’analisi puntuale della struttura di Cosa nostra. La sua confessione risale al 1972: allora solo un pazzo poteva fare una cosa del genere. Leonardo è un ragazzo debole, uno che per quanti sforzi faccia non è mai proprio uguale, conforme a quelli che gli stanno attorno: fa un po’ lo spavaldo con la sua ragazza, Maria, ma poi è un tenero innamorato che tutti i giorni l’aspetta quando lei esce dall’ufficio, e in fondo è diventato killer di mafia per compiacere lo zio che lo ha tirato su come un figlio fino ad accompagnarlo tra gli “uomini d’onore”. Così questo ragazzo commette un'ingenuità e si ritrova in carcere dove – tenuto in isolamento per 42 giorni e continuamente minacciato – perde il suo già debole equilibrio mentale. Una volta fuori scopre che il suo posto nel mondo è quello del matto conclamato, altrimenti è solo un morto che cammina.
Così, da un giorno all’altro, la vita di Leonardo si frantuma e l’unica cosa che giustifica il suo non aver seguito “le regole” è la pazzia, pazzia a cui affianca un pericoloso misticismo da cui potrebbe discendere un necessario perdono dei suoi peccati commessi come “picciotto”. L’esistenza borderline di Leonardo dura poco, però, perché un bel giorno decide, sotto la spinta della sua ricerca di redenzione, di rivelare alle forze dell’ordine tutto ciò che sa dell’organizzazione di Cosa nostra, dimostrando di avere un’ottima memoria, fornendo precise indicazioni sia sui delitti da lui stesso commessi, sia su quelli di cui è negli anni venuto a conoscenza. La sua unica salvezza sarà la pazzia, una lucida pazzia. I pazzi, si sa, fanno cose incomprensibili ai più ed i più avevano più voglia di capire (forse comprendere) la violenza dei mafiosi piuttosto che le motivazioni individuali di chi non riusciva più a vivere dentro a quei delitti e a quel particolare tessuto sociale. Leonardo, nella sua ingenuità, fa un grande azzardo, è un po’ come se salisse su un albero e da lì provasse a gridare al mondo la sua verità, protetto dalla distanza che l’albero della follia metteva tra lui ed il mondo. Matto, mistico, ma con licenza di parlare perché lucido (tutte le sue denunce trovano sempre precisi riscontri nei fatti noti alla polizia). E così continua, finché la sua mente, logorata dalle “cure” dei vari manicomi in cui soggiorna (elettrochoc e detenzione ai limiti della sopravvivenza) e dalle “attenzioni” che la mafia riserva ai suoi cari (uccidono il suo amico Salvatore e violentano la sua Maria), non cede inevitabilmente e finisce per non ricordare più: la sua unica arma si spunta e le porte del carcere si aprono per i mafiosi da lui accusati. In compenso la memoria della mafia non si spunta e sarà pronta all’appuntamento quando finalmente Leonardo sarà scarcerato.
Una storia di trentacinque anni fa, ma che potrebbe essere dell’altro ieri, un racconto efficace, narrato con i tempi giusti e ben eseguito da tutti i suoi interpreti. Una storia di denuncia che riesce anche a parlarci di avvenimenti più sottili, ci racconta con cura personaggi difficili che rendono più incisiva la denuncia stessa. Una storia che non resta lì – a Catania nel 1972 – ma ci raggiunge e ci coinvolge tutti: il racconto di un uomo che scopre che quanto più capisce ciò che osserva, tanto più si allontana dagli altri, vive di vita propria aldilà dello specifico contesto.
Molto bravo David Coco nel rendere vivo il suo antieroe, mafioso, ma sentimentalmente dipendente da una madre, lei sì eroica nel non venir mai meno nella vita del figlio, con un’interpretazione finalmente tutta in positivo della madre mediterranea.