di Serena Soccio/ Da un po’ di tempo a questa parte ho sempre più la sensazione che gli argomenti che trattano fatti storici, politici, biografici dovrebbero avere la forma del documentario raccogliendo là dove fosse possibile, interviste, videoriprese, voci reali, luoghi. Lo so è restrittivo e limita il campo alla fiction e all’interpretazione, ma è un po’ come se si perdesse l’autenticità di quella voce specifica e la grande opportunità comunicativa, sebbene da spettatori, di entrarvi in relazione più vivamente. Ed è quello che ho pensato immediatamente dopo il primo quarto d’ora del film La comune, dove tra l’altro fin da subito mi è stata chiara la posizione del regista e del pretesto da cui partiva.
Diciamo la verità chi almeno per una volta non ha sognato di vivere in una comune?
Magari ascoltando con occhi sgranati I racconti dell’amica Eloeh o Swami o Ananda figlia di ex sessantottini che raccontava la sua esperienza in condivisione, dove si stava tutti insieme e la promiscuità era molta, e suo padre a volte dormiva sul divano perché sua madre (che poi si chiamavano per nome mica padre e madre) decideva di dormire con altre femmine. E lei che non capiva e piangeva e le dispiaceva anche un po’ per suo padre che però le spiegava che amava sua madre e che non doveva essere egoista ad intralciare con i suoi capricci di bambina la libertà materna e che fare ciò che si desiderava era prerogativa di benessere e libertà e che lui forse era contento, se lei lo fosse stata e quindi anche di amore.
I miei non erano certo frickettoni ma la mia piccola esperienza comunitaria l’ho fatta a cinque anni, non si sa bene per quale motivo passavo dei lunghi periodi a Firenze ospite di due zii che frequentavano la facoltà di medicina. Vivevano in una casa vicino piazza della Signoria in un palazzo che sapeva, salendo le scale, di quell’odore acre tra muffa e legno di pino. Era grande la casa, alcune stanze divise da pareti improvvisate di stoffa, da cui si sentiva tutto, piena di fumo di sigarette Muratti, quelle che mi ricordo appoggiate tra i libri sui tavolini, come le chitarre imbracciate dalla gente, capelli e barbe rosse, americani, inglesi, irlandesi che giravano sempre mezzi nudi o coi pantaloni così stretti sui fianchi che la cerniera saltava puntualmente. Pieni di sorrisi, di birra e bisbigli intervallati solo da qualche urlo ogni tanto mentre rotolavano di corsa giù dalle scale per correre chissà dove. Era il 1976, nella mia testa di bambina.
Gli anni 70 sono un sentimento che evoca immediatamente un contesto politico, qualcosa che chi non l’ha vissuto seppur da molto giovane, non può capirne l’essenza, percepirne la complessità, la forza, le contraddizioni, il senso di liberazione e di libertà.
Ricordo uno scritto, tra i tanti del periodo, del mio professore di regia Arnaldo Picchi sugli anni della contestazione, che a spiegarne l’atmosfera recitava:
L’idea centrale – che al tempo ci perseguitava – era quella di procurarsi con ogni mezzo la libertà di poter scendere in ogni luogo della mente, senza vergognarsi di quello che fosse, e solo per andare a vedere, e senza voler dare ordine, e senza dare giustificazione di sé. Fregandosene delle punizioni. Il desiderio di sovrapporre alla mappa della città una seconda invenzione viaria. Ancora anni dopo, in piazza, gli studenti alzavano sulle spalle le loro ragazze perché si vedessero meglio possibile i cartelli con scritto Vogliamo parlare. Imparammo la scienza, le scelte della scienza, le sue scelte materiali, criticandone i paradigmi attraverso la filosofia della scienza. E dovemmo farlo da soli. E perché tout se tient, dato che tutto è concatenazione, chiedemmo responsabilità etica a tutto, a qualunque programma, a qualunque frase.
Mi permetto questa digressione autobiografica, tra l’altro simile allo spunto avuto per il film dichiarato dallo stesso Vinterberg, per spiegare la mia postura, in parte nostalgica per una certa libertà ideale eppure disposta in qualche modo ad assistere al fallimento sia ideologico che artistico che un’utopia porta potenzialmente in sé, in parte per una sorta di fascinazione riattualizzante del tema del vivere comunitario, riemerso ai nostri giorni come modello possibile, a seguito del movimento di liberazione della donna e il sempre crescente movimento ecologico.
Per non parlare delle erranze e ibridazioni identitarie, di amore liquido e poliamore di famiglie allargate e tutta la serie infinita di declinazioni di particelle della società. Insomma un branco di personaggi e personaggetti che cerca di accasarsi per scelta o per necessità, nella configurazione che più preferisce. Oltre a chi non sceglierebbe affatto di condividere un’abitazione, per esempio i nuovi poveri, i molti single meno abbienti, costretti invece per scarso potere economico a pensare alla co-abitazione come a qualcosa che attenui i costi della vita.
Il co-housing diventa così una nuova possibile stagione comunitaria.
Ma la Comune danese degli anni 70 raccontata nel film manca prima di tutto di quel contesto storico-politico sopra evocato. Sono danesi e nonostante Vinterberg sconfessi con Festen questa attitudine, in fondo da oltre 40 anni detengono il primato del paese più felice del mondo che si autodefinisce Hygge (una parola intraducibile) che sembrerebbe significare “accogliente” piacevole, che ricrea un’atmosfera di benessere. E su questa falsa riga è difficile tradurre il concetto di comune che ci sovviene, quella per noi nata per scardinare le istituzioni, disarticolare la famiglia, minacciare i confini tra pubblico e privato, così che fin da subito il film senza dogma, diventa quasi una reclame Ikea.
Ma d’altronde ciò che interessa e ha sempre interessato Vinterberg è la coppia (peccato non sia Cassavetes o Bergman), la famiglia, la cui prossimità dei soggetti all’interno di una convivenza è spesso se non sempre causa di sofferenza.
la comune2La storia è semplice, una coppia di borghesi benestanti, con figlia adolescente nonostante la progressista Copenaghen degli anni 70 si annoia, non trova più argomenti nuovi da condividere. Lui architetto e abbastanza tradizionalista, eredita una grande casa ed è disposto a continuare la sua vita di sempre mentre lei, giornalista televisiva ormai insoddisfatta dal menage famigliare propone di ravvivare la scena suggerendo l’idea di una comune. Così decidono non proprio di comune-accordo di aprire la casa ad altri amici. E qui che l’abitazione comincia a riempirsi di personaggi come in una piéce teatrale ma appena tratteggiati. Forse a privilegiare un senso di collettività o semplicemente a centrare il fuoco sempre più stretto sulla famiglia iniziale (tradizionale?). Dopo una prima parte allegra di idealismo utopico, immancabilmente la tragedia che capovolge con un ritmo che non tiene, esclusivamente poggiato sulla recitazione di quella donna spezzata che è Anna (Trine Dyrholm) sulla quale peraltro ricade tutta la responsabilità non solo della loro storia privata ma anche della narrazione. Erik (che originalità!) si innamora della bella studentessa Emma e su approvazione di Anna la introduce nella casa, lasciando da bravo maschio retrò che siano le donne a sbrogliare i contorcimenti psicologici. Sconvolge gli equilibri della comunità, non c’è più peace e nemmeno love o non almeno nella struttura iniziale, e si proclama come prevedibile il fallimento dell’ideologia rispetto alla complessità della relazione tra due persone. Anna nonostante lo sforzo di superare i propri limiti cede alla fragilità del dolore di una donna ferita dal tradimento del marito e rende pubblicamente manifesto il suo crollo (anche qua, Gena Rowlands diretta dal marito avrebbe avuto una resa ben diversa). La comunità non fa altro che, figlia lacrimosa compresa, consigliare alla donna un percorso autonomo e di ritorno all’individualità e così vince con un gesto mirato all’autoesclusione e non proprio in democrazia, il potere in fondo mai sovvertito del maschio, del padrone di casa, del più forte.

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