Il titolo originale Goya’s Ghosts (e ancor di più la sua traduzione per la distribuzione italiana L’ultimo inquisitore) in realtà potrebbe indurre lo spettatore ad aspettarsi una storia sulle inquietudini e le ossessioni di una figura complessa e controversa quale fu quella dell’artista Francisco Goya, pittore nella corte del re di Spagna Carlo IV, che visse la contraddizione tra l’adesione al potere con i suoi strumenti di repressione (l’Inquisizione) e il desiderio d’indipendenza delle proprie aspirazioni artistiche. Quello di Forman, però, non è né un film sull’artista né in generale sull’Inquisizione, ma racconta, piuttosto, la fine di un’epoca, la caduta dei poteri assoluti dopo la Rivoluzione francese. Il regista, di origine ceca, mette a confronto il potere della Chiesa e quello dei princìpi sovvertitori della Rivoluzione per mostrare come entrambi abbiano utilizzato forme di oppressione e violenza per trasformare gli uomini: la Chiesa attraverso il principio di autorità che le permetteva di distinguere, lei sola e incontrastata, ciò che è bene e ciò che è male; l’esercito napoleonico, erede dei valori della Rivoluzione francese, che attraverso il terrore e la violenza combatteva proprio quel principio di autorità in favore di un mondo libero in cui tutti fossero uguali. La Rivoluzione, infatti, ha avuto il merito di aver esportato quei valori che hanno creato le condizioni per permettere di scegliere, nel nostro mondo moderno, in che modo si voglia vivere. Vero è anche che, successivamente, Napoleone lungi dal realizzare una vera e propria liberazione insediò sul trono di Spagna suo fratello finché gli Inglesi non restaurarono di nuovo la monarchia assoluta. Ma i principi, quelli giusti, in partenza erano altri e universalmente accettabili.
Dunque, in questo quadro complessivo i personaggi de L’ultimo inquisitore sembrano più delle increspature, delle onde di un mare che si impone, che avvolge e schiaccia, il mare della storia, che riduce i singoli esseri umani a pallidi fantocci di fronte ai corsi e ricorsi degli eventi. E questo potrebbe essere un limite o un punto di forza del film. Le storie particolari dell’adolescente Ines, musa ispiratrice di Goya, accusata ingiustamente di giudaismo e imprigionata dall’Inquisizione, di padre Lorenzo, strumento di repressione del sistema Inquisizione e, naturalmente, anche quella di Francisco Goya si sciolgono e si disperdono nel mare magnum dei grandi rivolgimenti politici di quel secolo. Così padre Lorenzo passerà dalla parte dei suoi nemici (tornerà a Madrid con le truppe napoleoniche francesi per imporre i principi di libertà e uguaglianza) con lo stesso gelido opportunismo che lo aveva visto in precedenza partecipare con indifferenza alle sofferenze della famiglia di Ines che ne implorava la liberazione dalle carceri dell’Inquisizione; anche Goya, privo di qualsiasi ideologia, vedrà risvegliarsi la sua passione umana verso la piccola Ines solo quando questa riapparirà, irriconoscibile, dopo quindici anni di prigionia nelle carceri della Santa Inquisizione, chiedendogli aiuto. E ancora, Ines e la figlia Alicia si muovono come ritratti senza volto, fantasmi sperduti, vagano alla ricerca di chissà quale senso in un mondo e in un’epoca che allora più che mai un senso non l’aveva. Questi personaggi perdono la carica eversiva degli altri presenti nei film formaniani (Qualcuno volò sul nido del cuculo, Amadeus, Man on the moon,) e, sovrastati dagli eventi, sembrano subire drasticamente l’instabilità di un periodo storico in cui quei diritti oggi garantiti erano ancora una conquista labile da consolidare. E in un mondo dove la “ricerca della felicità” non è assicurata, anzi, ai più viene negata, non resta che la fuga altrove, in un luogo che non è l’altro mondo, quello della pace eterna, bensì quello del solitario e sconfinato abisso della follia.