Questo speciale mostra un’inconsueta propensione all’uso della prima persona. Ci hanno insegnato che in ambito critico è necessario ridurre la presenza individuale alla scelta di una posizione problematica rispetto all’opera. Si consiglia vivamente di interagire con la materia ripulendo il prodotto da eccessivi personalismi. Di delegare alla penna, alla conoscenza, all’ironia e all’intelligenza, il compito di rappresentare l’autore di un testo che non è mai indipendente. Probabilmente la natura particolare ed ibrida di questa riflessione può aver spinto i redattori di Schermaglie a gettarsi dentro l’argomento con uno slancio insolitamente viscerale. Il risultato di quest’atteggiamento invoglia chi scrive ad introdurre il rapporto tra Napoli e l’ultima generazione italiana in cinema a partire dal suo immaginario intimo e infantile.
Ricordo, per cominciare, i miei viaggi delle vacanze, accompagnati dalla speranza che la tangenziale partenopea facesse bene il suo dovere di toccata e fuga. Perché tutto quello che sentivo su Napoli lo sentivo solo su Napoli e quella frase che dice di vederla e poi morire ingigantiva in me una nebulosa immaginaria di Caronti furbi e di dannati. Non dimentico la gag in cui Jerry Calà affronta il napoletano Cucchiaroni, rivale in amore, pensandolo come un orco di famiglia che inforca maccheroni urlando. Il film è Un ragazzo, una ragazza e Cucchiaroni si rivelerà un giovane in camicia ed occhialetti, colto, magro, molto timido e disposto al dialogo. La mia Napoli era la città dei botti e delle famiglie senza casco in motorino, degli scatoloni col mattone dentro e di una cultura poco onesta che urla una lingua pesante e poco comprensibile. Una città in sovrappeso, di bagarini e venditori ambulanti, povera di eleganza e leggerezza. Volgare, violenta, nervosa, bugiarda. Impastata con le immagini del vicolo bloccato da un lenzuolo bianco, coi piedi del morto ammazzato tra le gambe dei curiosi. Questa città mi pareva la più sfortunata e pericolosa del mondo. Conservo l’effetto degli ultimi carabinieri in verde fermi sul cadavere e il frammento “magnetico” della donna senza allegria che fuma in mezzo ai panni stesi; la nausea alla vista dei palazzi lasciati a blocchetti. Ma, di tutt’altra specie, ho ben impressi anche gli scugnizzi festanti che al Novantesimo minuto di Paolo Valenti si accalcavano dietro Luigi Necco salutando, e l’emozione positiva che mi procurava quella allegria spontanea e immotivata. Come certi ritornelli d’amore popolare, elementari eppure efficaci come microproiettili esplosivi: “Ti ‘nnammurat e me, ma sient a mme, chi to fa fa… ritorna nata vota ‘nsiem a chillo lla!”. Succedeva solo da Napoli e quella vitalità accorata si sovrapponeva al mio immaginario. Era come se la luce e il buio se le dessero, se si costruisse una doppia rappresentazione di quel luogo. Da una parte la città dolente e dall’altra quella del sole: epiteti che imparai più tardi, abusi e stereotipi, ma che ben sintetizzano quel mio sentimento confuso. La Napoli rappresentata esalta e festeggia la vita mentre la umilia e la schiaccia. E anche il cinema, con Napoli, mi si è sempre presentato in questa doppia veste: prendiamo Carosello Napoletano, l’unico vero grande musical italiano, un kolossal barocco del 1953, un capolavoro diretto da Ettore Giannini. Un film paradiso, di musica, colore e fantasia. Folkloristico ma mai dozzinale. Quei napoletani cantano di tutto ed hanno già posto in aforisma la maturazione di un pensiero saggio. Pongono in versi e note la miseria, la sorte e la morte. Si innamorano e litigano, poi trasformano tutto in un balletto. E mi basta accostare Carosello Napoletano a Paisà o a Le quattro giornate di Napoli, per ritrovare lo stesso stridere di sensazione che caratterizza il mio rapporto (non rapporto) con la città di Pulcinella. Due film di guerra, due pellicole sulla città piagata dalle bombe e dalle occupazioni. Due film di dolore e distruzione ma anche di bambini. Nel primo il soldato americano ritrova lo scugnizzo che gli ha rubato le scarpe. Si fa portare nel posto dove abita per parlarne con i genitori. Lì la miseria lo scuote; la notizia che i genitori del bambino siano morti lo commuove. Ne Le quattro giornate di Napoli, Nanny Loy ci regala un film corale che procede per frammenti e che mostra, tra gli altri, il sacrificio del piccolo Gennarino Capuozzo, morto su una barricata, o le imprese della banda Ajello, composta da bambini fuggiti dal riformatorio. Questo parallelo napoletano, per dire che accanto al pane e all’amore, agli spaghetti in tasca di una miseria fantasiosa e di una nobiltà squattrinata, accanto al bisogno di sopravvivere che produce il mestiere del finto morto e del venditore di consigli, accanto all’uso della gravidanza come stratagemma per spernacchiare lo stato, accanto alla baia che fa innamorare gli americani e all’America che fa sognare e rimpiangere quel golfo incantato, accanto alla prorompenza fisica di una femminilità materna e conservatrice, c’è una Napoli cinematografica eternamente dolente e insanguinata.
Quella sotto il Vesuvio è una cinematografia in cui il “genere” diventa realismo e la didascalia iniziale di Le mani sulla città lo chiarisce meglio delle mie parole: “I personaggi e i fatti sono immaginari”, dice la scritta, “ma autentica è la realtà che li produce”. Gli spari e le sirene, i morti ammazzati, le violenze dentro e fuori le case, la presenza costante di un’ingiustizia sistematica, si impregnano di realismo appena atterrano su Napoli. Vedere molti film in cui si muore e molti in cui si soffre, regala allo spettatore quella “realtà in quanto rappresentazione” che di questi tempi è più forte della “realtà in quanto realtà”. Però, se sul doppio binario il cinema ci ha raccontato e prodotto Napoli, è come se ad un certo punto una spontanea politica degli autori fosse diventata estranea alla cartolina e avesse fondato le sue immagini, e le sue parole, più sul quotidiano che sulla tradizione. E’ ovvio che non mancano eccezioni, vedi il recente Incantesimo Napoletano, con la storia della bambina che parla milanese. Ma il cinema su Napoli che ho visto in quest’ultimo decennio parla quasi esclusivamente una lingua cruda, violentissima e di denuncia. Cito qualche titolo: Pianese Nunzio 14 anni a Maggio, Tornando a casa, Pater familias, Certi bambini, Teatro di guerra, Vento di terra, La guerra di Mario. Questi film hanno in comune l’uso di un dialetto pregnante ed integrale, una rappresentazione scarna ed essenziale del dinamico tragico, il reportage poco melodrammatico di una realtà sociale ed economica precisa, una grande resa fisica del reale creata da un impasto di sguardi, silenzi, vedute e fatti. E’ un cinema che racconta un mondo a parte, fatto di precise e “speciali” regole e codici. Ma c’è un’altra comune particolarità che fa riflettere a proposito di questo sottofilone del presente. In tutte queste pellicole, (tranne forse che in Teatro di guerra), i protagonisti sono tutti giovanissimi se non bambini. Per Pianese Nunzio e La guerra di Mario (i due estremi cronologici di questo piccolo gruppetto) Antonio Capuano sceglie due ragazzini di 14 e 8 anni. Due facce da Napoli, silenziose dentro un contesto pesantissimo vissuto come l’unico possibile. Vincenzo Marra (Tornando a casa e Vento di terra) ra
cconta due storie di vinti napoletani attraverso le vicende di due adolescenti: Franco ed Enzo. Lo stesso fa Francesco Paterno, regista di un solo e apprezzatissimo film, quando costruisce su un paradigma di adolescenti animalizzati l’inferno quotidiano dell’hinterland partenopeo. Antimo, Roberto, Michele, Gegè e le loro morti assurde e casuali. Insieme alle scelte di Franco ed Enzo, Nunzio e Mario. Fabio Ferzetti ha notato giustamente: “Non si racconta la criminalità, ma il territorio, ancora più occulto e mostruoso, del serbatoio che alimenta tutte le camorre.“
“Ti ‘nnammurat e me, ma sient a mme, chi to fa fa… ritorna nata vota ‘nsiem a chillo lla!”.
sapete chi canta questa canzone??
‘a canzuncella, de gli alunni del sole.