Sorprese e regali. Film italiani scomparsi da anni ritrovati sul lago Maggiore. Capolavori italiani del passato omaggiati a cinquant’anni di distanza. Il ritrovamento ha un titolo buffo, curioso: Quel fantasma di mio marito. Lo diresse Camillo Mastrocinque, lo sceneggiò Antonio Pietrangeli e lo interpretò un eccezionale Walter Chiari. Era il 1950 e parliamo di un’opera realmente scomparsa, rimasta in sala per nemmeno un mese e mai passata in tv, a differenza di altri film che si dicono perduti ma che perduti sono solo in parte. Lo hanno trovato in un cassetto i figli del vecchio produttore, Quel fantasma di mio marito, e ne hanno promosso il restauro con all’intervento della cineteca nazionale di Milano. Locarno lo propone come Evento speciale in occasione della sua 62esima edizione.
Pellicola a basso costo, non perfetta diseguale per ritmo e qualità, Quel fantasma di mio marito è però molto divertente, ed ha una manciata di validissime gag. E’ una favola innocua che diverte con trovate e colpi di scena. La vera bomba è la presenza di Walter Chiari, brillante di un talento immenso, potente e misurato nei 95 minuti di narrazione. Una perla, questo film ritrovato, un gioiello prezioso per gli innamorati del genio comico nato a Verona. Quel fantasma di mio marito è una commedia brillante che guarda oltre il modello dominante nella storia della commedia italiana di quegli anni, e trova in Chiari un interprete molto somigliante a certi divi americani del periodo. Pochissimo dialetto, pochissima strada, pochissima periferia, ed un accento involontariamente posto sulla questione palestinese, già nel ’54 complessa come oggi, tanto che un personaggio del film definisce quella terra “polveriera del mondo”. C’è una leggera polemica contro i giornalisti e un’invettiva contro l’ossessione per le diete e il desiderio di successo e affermazione. Ma soprattutto, Quel Fantasma di mio marito, racconta la storia di un giovanotto magro e snodato che fa il giornalista senza convinzione. Ha una laurea in agraria che poco c’entra col mestiere che fa, e forse per questo un brutto giorno viene licenziato dal giornale per cui lavora. Si chiama Gianni ed è sposato con una bellissima ragazza abile tanto da riuscire nella doppia impresa di mettere su un atelier di moda e di far riassumere il marito dal direttore del quotidiano. Il secondo compito, per la verità, è facilitato dal fatto che il direttore indulgente si è innamorato di lei, e pur di avere via libera spedisce il povero Gianni come inviato speciale in Palestina. La moglie di Gianni, carina e un po’ furbetta, consiglia al maritino di procurarsi una finta in morte in luogo esotico, magari attraverso qualche impresa rischiosa. Per poi ricomparire tempo dopo da eroe nazionale. Ci saranno vantaggi per tutti, pensa la donna, pubblicità e fama. E così il povero Gianni parte per un Medio Oriente ricostruito alla meno peggio, e puntuale arriva la notizia della sua morte. Piangono tutti tranne che la donna, convinta che Gianni sia vivo e vegeto. E invece il giovane è morto per davvero, e tornerà a casa soltanto sotto forma fantasma. La moglie continuerà a crederlo vivo e rimarrà a lungo convinta che il marito sia tornato per mettere fine allo stratagemma. Non sarà facile, per Gianni, convincerla di essere morto per davvero, e solo a quel punto la donna si renderà conto di quanto accaduto e si dispererà dal dolore finendo addirittura in manicomio.
Tutto finito? Macchè, colpo di scena finale: Gianni, con un miracolo da commedia popolare, è restituito alla vita e per sua moglie sarà un nuovo schock. Stavolta, però, la donna avrà capito la lezione: imparerà a tenere a bada le sue ambizioni sfrenate e a puntare sulle cose davvero importanti. Come accettare, per esempio, il progetto che suo marito le aveva proposto da tempo: andare a vivere in campagna e coltivare la terra. Quel fantasma di mio marito è un viaggio piacevolissimo nel cinema italiano di tanti anni fa e si associa bene ad un secondo itinerario che Locarno propone nell’Italia cinematografica del passato.
Si tratta di un felice omaggio a La dolce vita di Fellini, che sta per compiere cinquant’anni e che non è solo un grande film italiano. Cinquant’anni di eterna giovinezza, di mito in progress. Da subito, da quel 1961 in cui Germi raccontò la discesa de La dolce Vita nel meridione italiano dei piccoli paesi: in Divorzio all’italiana, come molti ricorderanno, è ben descritto l’impatto del film sul costume nazionale, e se non bastasse c’è anche Totò, piu’ o meno contemporaneamente, a certificare l’importanza del film con la parodia dello stesso intitolata Totò, Peppino e la Dolce vita. Insomma, da subito e per sempre nasce un rapporto privilegiatissimo tra La dolce vita e la italiana società. Fino ad oggi, fino a questo documentario di compleanno ideato da Tullio Kezich e realizzato da Gianfranco Mingozzi, uno che di quel film sa molto, avendoci lavorato da assistente alla regia. Si intitola Noi che abbiamo fatto la dolce Vita, e prende spunto dal libro omonimo di Tullio Kezich edito da Sellerio.
Mingozzi e Kezich sono anche protagonisti parlanti di questa operazione che ricostruisce la nascita di un accertato capolavoro. Il documentario racconta come andarono esattamente le cose e va a cercare molti di quelli che presero parte a questa avventura fatta di semplicità, genuinità ed incoscienza, lontane dal grande immaginario creato poi da questo mostro cinematografico.
Tanti fatti e tanti aneddoti vengono raccontati armoniosamente in quasi 80 di mai noioso documentario, assai denso, inoltre, di precisazioni e puntualizzazioni storiche utili. Gli autori incontrano uomini e donne che presero a parte a piccoli personaggi (vedi il gruppetto dei paparazzi) o grandi attrici che rifiutarono la parte offerta da Fellini, perché secondo loro troppo breve. Ci sono Dominot, la Ciangottini, un discorso sugli sceneggiatori (bello quello su Tullio Pinelli) ed uno sul produttore del film, Peppino Amato. Nei bei materiali di repertorio presenti nel doc. parlano Mastroianni, la Ekberg, e la Aimèè, ma a poco a poco, come immaginabile, prende forma il solito ritratto di Fellini e si delinea nuovamente il valore e il carattere dell’artista riminese. Noi che abbiamo fatto la dolce vita è onesto lineare ed interessante. Per chi de La dolce vita non sa ancora tutto, il lavoro di Mingozzi e Kezich non è avaro di aneddoti, spiegazioni e curiosità. Si ride più di una volta, e questo fa benissimo, al film e a chi lo guarda.
penso che sia una cosa stupenda riproporre un film italiano di questo calibro, proprio perchè c‘è WALTER CHIARI…..