Kisses dell’irlandese Lance Daly (Competizione Internazionale) e Khamsa del franco-tunisino Karim Dridi (Piazza Grande) mettono entrambi in scena la difficile transizione dall’infanzia all’adolescenza, un momento cruciale in cui ogni individuo si trova a confrontarsi con le sue prime vere scelte; scelte che lo aiuteranno a crescere, a costruire se stesso, a determinare la sua posizione nei confronti della vita. Questo “rito di passaggio” è il comune denominatore di due film, in realtà, molto diversi fra di loro tanto per il contesto socio-culturale che descrivono che per il loro linguaggio cinematografico.
Kisses è una favola-parabola urbana che si svolge nell’ambiente della piccola borghesia alla periferia di Dublino. Protagonisti di questa storia sono Dylan e Kylie, due vicini di casa, entrambi prigionieri di una vita famigliare dura e oppressiva. Dylan, ragazzino timido e solitario, deve affrontare un padre violento. Kylie che vive con la famiglia della sorella deve subire gli abusi sessuali del marito di quest’ultima. Il giorno di Natale, nel corso di un’ennesima lite, Dylan si trincera nel bagno di casa per sfuggire all’ira di suo padre. In una scena comico-tragica che fa l’occhiolino ad una celebre sequenza di Shining, Dylan riesce infine, con l’aiuto di Kylie, a salvarsi scappando dalla finestra. In seguito a questo episodio i due ragazzini decidono di fuggire nella vicina città di Dublino alla ricerca del fratello maggiore di Dylan, scappato anche lui di casa due anni prima.
Inizia così un viaggio gioioso e pieno di speranza; per sottolineare questo passaggio il film, in bianco e nero nelle prime sequenze, si tinge lentamente di colori. Quelle che seguono sono scene di spensieratezza, di libertà, di incontri meravigliosi e di giochi nel mondo, pieno di luci e di colori, di un centro commerciale bardato a festa. È la notte di Natale e tutto sembra magico e meraviglioso: in un contrasto esteticamente molto suggestivo fra il buio della strada e il riverbero delle luci il regista segue il trotterellare allegro e ottimista dei due giovani eroi, si sofferma con dei close up sui loro volti rapiti. Il tempo sembra come sospeso. Ma questa felicità sarà di corta durata: la ricerca del fratello si è rivelata vana e, dopo aver speso tutti i loro soldi in scarpe e vestiti, Kylie e Dylan si ritrovano per strada soli e senza risorse. La notte si rivela piena di insidie e di pericoli: questa volta sarà Dylan a salvare la vita della sua giovane amica. Impauriti e sfiniti all’alba i due decidono di rientrare a casa: la pellicola si tinge di nuovo, inesorabilmente, di grigio… Eppure questa fuga non è stata completamente inutile: una vera amicizia è nata, e con essa, forse, anche il primo grande amore. Un lungo bacio salda il legame fra i due ragazzi.
Lance Daly ha deciso di trattare questo soggetto, in sè molto triste, con un tono leggero, esorcizzando la durezza della realtà che descrive con una lieve vena umoristica e un trattamento poetico delle immagini. Il talento dei due giovani attori che muovono i loro primi passi davanti alla cinepresa con incredibile giustezza è senza dubbio uno dei grandi pregi di questo film. Kisses è anche un omaggio a Bob Dylan, nume tutelare di questa storia dolce e amara al contempo. Le sue canzoni, evocate, cantate ed ascoltate servono da sfondo a quest’anelito a una vita migliore. A tratti il regista indulge un po’ troppo in un tipo di estetica patinata e preziosa che tradisce la sua provenienza dal mondo visuale del video-clip ma, questo difetto gli si potrà forse perdonare grazie al ritmo sostenuto del racconto che mantiene vivo il nostro interesse dall’inizio fino alla fine.
Khamsa, tragica epopea sub-urbana, è un film che sorge dall’immersione nella realtà di una comunità di gitani nel sud della Francia. Se in Kisses era il peso del nucleo famigliare ad opprimere e a soffocare i ragazzini qui, in un capovolgimento totale di prospettiva, è la disgregazione totale della famiglia che sconvolge l’esistenza del protagonista. Ci troviamo in un ambiente molto particolare: un accampamento gitano, perduto nella periferia di Marsiglia fra i tornanti dell’autostrada, quasi invisibile per chi ne ignora l’esistenza. Il lavoro di Karim Dridi si basa su un approccio reale di questa comunità che costituisce la frangia estrema, il sub-proletariato, della società francese: i giovani attori non professionisti del film ne fanno tutti parte, fra loro spicca per le sue eccellenti qualità interpretative Marc Cortes, nel ruolo del protagonista “Marco”. Khamsa ci narra le sue vicissitudini e quelle dei suoi compagni.
Scappato da una famiglia a cui era stato affidato, l’undicenne Marco ritorna all’accampamento per trovare rifugio fra i suoi famigliari, ma nessuno sembra volerlo. Viene respinto dalla matrigna, suo padre parte con una giovane donna per Lione e la nonna adorata, suo unico vero appoggio, muore pochi giorni dopo. Marco, selvaggio e fragile, è lasciato completamente a se stesso, ma non si dà per vinto. Si aggrega ad una banda di ragazzi della sua comunità di cui fanno parte il cugino Tony, un nano onesto e di buon cuore che guadagna la sua vita con i combattimenti di galli e Coyote, giovane sbandato che si dà alla piccola delinquenza. Marco vuole sopravvivere e cerca la sua strada: se si associa a Coyote per aiutarlo nelle sue attività criminali è più per non sentirsi solo che per altro. In realtà sogna un’esistenza, diversa, normale, fuori dall’accampamento: vorrebbe diventare fornaio e guadagnarsi così la vita. Tuttavia il destino non gli lascia nessuna chance: per aiutare l’amico Coyote, in pericolo durante una rissa, ferisce a morte un altro adolescente, diventando così, suo malgrado, un assassino.
Khamsa non ci propone un happy end. La tensione è palpabile durante tutto il film: la sorte del protagonista è sospesa ad un filo, lo vediamo lottare, vacillare, prendere della cattive decisioni, ripentirsi e tornare su i suoi passi e l’empatia che sentiamo è totale. Per quanto un finale drammatico sia temuto e presentito, la speranza che le cose non vadano a finire male, dopotutto, ci accompagna fino alle ultime scene. Il postulato del regista è questo: non si nasce delinquenti, ma le condizioni di vita nelle quali cresciamo possono spingerci a diventarlo.
Prima di girare Karim Dridi si è stabilito durante quattro mesi in seno alla comunità gitana che vediamo nel film; quest’esperienza gli ha permesso di conferire a Khamsa un’autenticità documentaristica lontana dai clichè. Nonostante i suoi protagonisti siano perpetuamente in azione, Khamsa è un film lento, dai tempi diluiti. Dridi vuole darci tutto il tempo per conoscere la vita di questi ragazzi, i loro gesti, i loro rituali con uno sguardo rispettoso e da osservatore: senza compiacenza, ma anche senza cadere in un ovvio e deleterio disfattismo. L'autore segue per giorni e gi
orni i vagabondaggi, i giochi, le risse, le corse e le fughe del gruppo. Queste scorribande ci conducono in un insieme di luoghi grandiosi e miserabili al contempo: terreni pieni di ferraglie, casolari abbandonati, spazi nascosti sotto i piloni dell’autostrada, magazzini in disuso, il cantiere navale dell’Estaque. Marsiglia si vede per lo più da lontano, dall’alto. La sua presenza si immagina dietro una collina, nel riflesso lontano del mare. La luce del Mediterraneo inonda di tinte dorate i paesaggi desolati della periferia creando delle oasi visuali di grande e insospettata bellezza. La vera forza del film sta però nei suoi giovani attori dai volti intensi e indimenticabili, dagli sguardi profondi e disillusi. Per noi spettatori si tratta di un'esperienza piena di emozione, per loro questo film è stato un’opportunità di integrazione, l’occasione di avere un vero lavoro, con degli orari, degli obblighi e una busta paga alla fine del mese.