Se non fosse per la t-shirt promozionale d’ordinanza e i Ray Ban perennemente sul naso a difenderlo dal sole tanto ostile ai morti viventi, Bruce LaBruce sarebbe tutt’altro da ciò che t’aspetti: misurato nella voce e gentile nei modi, quasi sobrio nella sua naiveté, non lo diresti mai il regista dell’inaudito L.A. Zombie, mix estremo di porno e horror sotto la bandiera della militanza gay che ha lasciato il segno a Locarno 2010. Cita Godard e Mario Bava, conversa con piacere di filosofia orientale, di Hermann Nitsch e David Hopper, palesando nell’incontro avvenuto nella hall di un albergo locarnese quanto già era chiaro da una visione attenta e non superficialmente pregiudiziale del film: dietro le sue immagini hard e splatter c’è la consapevolezza di un artista che pensa il cinema. Il suo produttore, a poche poltrone di distanza, spulcia la rassegna stampa forse in cerca dello scandalo che conferisca alla creatura maggior appeal nell’agone distributivo internazionale; per ora in Italia ci sarà di certo solo la distribuzione in dvd. Intanto lui, il mite Bruce, si gode il successo in terra svizzera (tutto esaurito e grande partecipazione in sala ad entrambe le proiezioni festivaliere) e si coccola il suo zombie omosessuale che resuscita i morti a forza di amplessi.

AA: Si può dire che il personaggio principale del tuo film è uno zombie moralista?

BLB: Non so se egli appartenga a un universo morale… Però sì, è una specie di salvatore, in questo senso direi quindi che è una forza del Bene. Ma se ne sia cosciente o meno non saprei dirlo: accoppiandosi con i morti li riporta in vita, ma magari nel mondo dal quale viene, che forse è un universo alieno, questo è semplicemente il modo comune di vivere. Forse egli non sceglie di farlo, lo fa e basta.

AA: In ogni caso tu non sai da dove venga…

BLB: No (ride).

MGV: Cosa c’è dietro all’idea di uno zombie-salvatore?

BLB: La mia idea era che il film rappresentasse una sorta di rovesciamento di tanti horror moderni, nei quali la morte è una specie di feticcio: c’è un nichilismo, un cinismo, nel modo in cui quei film sfruttano le paure del pubblico. Ecco perché invece di enfatizzare il momento e l’atto della morte, in L.A. Zombie la creatura trova le persone già morte e le riporta in vita. Ecco il rovesciamento.

AA: Qual è il legame tra l’hardcore, l’horror e la politica nel tuo film?

BLB: Jean-Luc Godard ha detto: Le cul, c’est la politique! – il sessuale è politico. Quindi la pornografia è politica. Ho iniziato a fare lavori pornografici per quelle che consideravo ragioni politiche. Erano gli anni ’80, ce l’avevo a morte con l’ambiente gay borghese, così insieme ad altri amici mi avvicinai al punk. Il movimento punk era a quel tempo un movimento fortemente politico, dall’impronta radicale. Eppure anche al suo interno scoprimmo che c’era dell’omofobia. Così iniziammo a fare delle fanzine e anche dei film, ovviamente film sperimentali, che erano pornografici e in più erano esplicitamente omosessuali. Volevamo dimostrare che per essere politicamente rivoluzionari bisogna essere anche radicali dal punto di vista sessuale. Ecco come ho cominciato a fare film porno.

MGV: è vero che avete girato L.A. Zombie in soli sette giorni?

BLB: Sì, è così, è un film a budget ridottissimo, in stile guerrilla filmmaking [1]. Andavamo nei posti a girare e basta, non avevamo i permessi, escluso per il cimitero di Pasadena, l’unico in tutta l’area di Los Angeles che abbia acconsentito a lasciarci filmare al suo interno. Oggi a Los Angeles è molto difficile girare low-budget perché i costi sono altissimi e ci sono mille norme su dove, come e quando è possibile filmare. Ma credo anche che questo abbia dato uno spirito e uno stile unici al film, che ha quell’energia tipica che deriva dal fare qualcosa di illegale. In ogni caso la lavorazione è stata estremamente complicata e forse all’inizio non me ne ero reso conto appieno. Da una parte c’era il problema di realizzare gli effetti speciali con risorse scarsissime. Joe Castro, che se ne è occupato, ha una certa esperienza di horror a basso budget, eppure preparare il make-up dello zombie richiedeva ogni volta delle ore. In più fare un film porno comporta dei tempi di organizzazione lunghi: gli attori devono prepararsi, lavarsi ed entrare nel mood necessario per girare. La combinazione di questi elementi ha reso tutto molto complicato e ci siamo ritrovati a dover girare 14-16 ore al giorno per 7 giorni.

MGV: Anche il montaggio ha avuto tempi rapidi?

BLB: No, il montaggio ha avuto dei tempi balordi. Abbiamo girato nell’agosto scorso ma non ho avuto la possibilità di cominciare il montaggio prima di dicembre. Soltanto ora, un anno dopo, abbiamo fatto la première qui a Locarno. è stato un processo molto lungo!

AA: Hai lavorato al montaggio in prima persona?

BLB: No, per i primi film l’ho fatto… Negli ultimi tre invece mi sono sempre affidato a Jörn Hartmann, con cui ho un ottimo rapporto, di fiducia e collaborazione. L’ho lasciato fare, ogni tanto entravo in saletta e verificavo che la direzione in cui andava il suo lavoro mi piacesse. Lo stesso avviene ormai da anni con James Carman, direttore della fotografia di tutti i miei film da Hustler White (1996) in poi. Lui conosce la mia sensibilità e io mi fido di lui.

MGV: La parte visuale del tuo film è certamente molto potente. Come hai lavorato sui colori, per esempio? Dal punto di vista cromatico la
creatura muta in continuazione…

BLB: Molte delle scelte sono state imposte dal budget. Non potevamo permetterci per esempio né il tempo né il personale per fare un make-up completo dello zombie, così abbiamo deciso di fare solo una parte del corpo. È stata una decisione meramente pratica. La cosa strana e un po’ magica che è capitata è che i colori della creatura spesso si sono trovati a corrispondere con i fondali. Non è stata una scelta cosciente, semplicemente è successo; come nella scena finale, dove lui è dello stesso colore delle lapidi e, ancora, quando lui è nella cella frigorifera, di un colore che corrisponde a quello del cartone… Credo che questo sia stato determinato dalla pittura che abbiamo usato, dal modo in cui rifletteva la luce.

MGV: Lo zombie muta da una forma all’altra dando un’impressione di grande fluidità. Per renderla, hai collegato i differenti episodi con quei carrelli all’interno del tunnel, in cui lo zombie si muove in direzione della camera; nell’ultimo carrello invece compie il movimento nelle due direzioni…

BLB: Ci sono due famosi tunnel nei sobborghi di Los Angeles, utilizzati in molti film. Ovviamente è molto pericoloso girare lì senza i permessi perché c’è sempre molto traffico, etc. François (François Sagat, il protagonista del film, ndr) stava in piedi sul retro del camion e noi dietro a filmare… Il tunnel è una specie di portale che lui attraversa per viaggiare nel tempo o vivere una qualche specie di trasfigurazione, mutando da una forma all’altra…

MGV: C’è forse anche un attraversamento di stati mentali: nel film non è mai chiaro se il protagonista sia un homeless o meno, se la trasformazione in zombie non sia soltanto il prodotto di una mente schizofrenica…

BLB: Quando sono arrivato a Los Angeles mi sono reso conto che la situazione dei senzatetto era molto più estrema di quanto avessi mai visto prima. Nel film c’è la possibilità che il protagonista sia un barbone schizofrenico che nelle sue allucinazioni immagini di trasformarsi in uno zombie. Però altre persone, dopo aver visto il film, mi hanno detto che potrebbe essere una creatura che usa il corpo di un homeless per mimetizzarsi e osservare l’umanità… Il film è volontariamente aperto alle interpretazioni. Anche nel montaggio abbiamo mantenuto questa ambiguità: come nella scena in cui egli guarda se stesso attraverso la finestra, per cui c’è la sensazione che sia in due posti diversi allo stesso tempo… Quello che io volevo era realizzare qualcosa che fosse molto visivo e dialogasse con lo spettatore su un piano intuitivo.

MGV: Dal film emana una grande malinconia. È qualcosa a cui, mi sembra, contribuisce molto la colonna sonora, che funziona come una sorta di contrappunto rispetto alle immagini e conferisce al film una dimensione poetica. Puoi dirci qualcosa in più su come hai lavorato su questo aspetto?

BLB: Per me la musica è molto importante. Con Mikael Karlsson avevo già lavorato in Otto; or, Up with Dead People. L’ho conosciuto in Internet, come molti altri miei collaboratori. Aveva delle musiche già composte, così gli ho chiesto di farmi sentire qualcosa che potesse essere appropriato al film e non fosse già stato usato prima. Tra quelle musiche c’era anche l’arrangiamento del Notturno di Chopin.

MGV: Gli hai dato molti riferimenti?

BLB: Soltanto il concept del film. In Internet ho conosciuto anche un altro ragazzo, Kevin Hoover, che faceva perlopiù musiche per spot. Gli ho chiesto di comporre qualche pezzo sullo stile dei Tangerine Dreams e di Giorgio Moroder, di quei film degli anni ’70 che adoro. Gli ho detto infatti di guardare Cat People (Il bacio della pantera di Paul Schrader, ndr), musicato da Giorgio Moroder, e Sorcerer (Il salario della paura di William Friedkin), la cui colonna sonora è dei Tangerine Dreams. Così lui ha composto sei tracce su quello stile, tra cui quella usata nella scena del tunnel.

MGV: E sei soddisfatto del risultato?

BLB: Sì. Altre persone hanno collaborato alle musiche, amici e conoscenti. Per esempio la bella ballata in francese è di Philippe Bresson, che pure ho conosciuto online. In pratica è andata così: le persone venivano a sapere che stavo preparando un film e mi inviavano le loro cose, molte le ho poi inserite nel film.

MGV: Guardando la scena della mattanza finale, ambientata in quello spazio bianco e spoglio, ho pensato a Hermann Nitsch, al suo Orgien Mysterien Theater degli anni ’70, le performance durante le quali macellava animali dal vivo… Quali sono i tuoi riferimenti artistici? Qual è il tuo universo in questo senso?

BLB: Proprio un paio di anni fa ho visto una mostra dell’Azionismo viennese… Mi sento molto vicino a quei lavori. Un’altra influenza diretta in L.A. Zombie è quella di Edward Hopper. Dal punto di vista cinematografico direi Mario Bava, in particolare Planet of the Vampires (titolo italiano: Terrore nello spazio, ndr), un film molto stilizzato, in cui i cadaveri vengono rianimati dallo spirito di un alieno. Poi per la scena della stanza bianca direi ovviamente anche A Clockwork Orange.

AA: L.A. Zombie mi ha fatto molto pensare anche al cinema di David Cronenberg: in particolare l’idea che la ferita possa essere un’apertura verso qualcos’altro. Come in Videodrome e in Existenz…

BLB: Non ci ho pensato specificamente… Però sì, forse c’è qualcosa di “canadese” riguardo alla ferita… come pure in Crash… Ecco, credo che nel girare la scena iniziale dell’incidente stradale pensassi a Crash, che è un film splendido. Però per me le ferite sono legate anche alla filosofia Chakra: le ferite delle vittime sono tutte collocate in dei punti vitali del corpo (i chakra, appunto) e lo zombie le guarisce penetrando i cadaveri proprio in quei punti. Anche questo è un rovesciamento.

MGV: Sono molti i riferimenti simbolici che si possono trovare nel tuo film: la figura di Cristo, per esempio, per via del martirio, della ferita, del sangue…

BLB: Come dicevo prima, il film è volontariamente aperto alle interpretazioni. Non ne ho mai scritto una sceneggiatura vera e propria, in pratica non ci sono dialoghi. Così sta capitando che le persone mi suggeriscano letture alle quali non avrei mai pensato… Per esempio, il film si chiude con la scena del cimitero, in cui lo zombie si rifugia dentro una tomba; nel mio film precedente, Otto, nella scena iniziale uno zombie veniva fuori da una tomba… Invece in Hustler White nella sequenza conclusiva il personaggio che io interpreto è in mezzo all’Oceano con il corpo per metà immerso nell&rsqu
o;acqua, nella stessa location che abbiamo poi usato per L.A. Zombie, quando la creatura emerge dall’acqua… Ci sono molti richiami interni involontari.

MGV: Qual è il topic di L.A. Zombie?

BLB: Per me questo film è un canto d’amore a Los Angeles, che è una delle città che amo di più. Ci ho vissuto per un anno quando ho fatto Hustler White a metà dei ’90, e trovo che abbia qualcosa di molto triste: è una città in cui la gente non cammina, si sposta solo in auto, c’è molta solitudine.

MGV: Il modo in cui filmi la città è per me allo stesso tempo intimo e rispettoso…

BLB: All’esterno Los Angeles è identificata con Hollywood e con l’idea del sogno: la fama, la gloria… Ma il ventre della città è molto diverso, la realtà delle strade è dura e solitaria. Ho provato a catturare questo aspetto. Persone che conoscono bene L.A., dopo aver visto il film, mi hanno detto che ci sono riuscito.

Traduzione a cura di Armando Andria.
Foto di Maria Giovanna Vagenas.

 

[1] Si tratta di una forma “estrema” di cinema indipendente che va sempre più affermandosi tra i filmmakers della nuova generazione (soprattutto negli USA) caratterizzata da scarsi capitali, troupe ridotte all’osso, scenografie realizzate alla buona con qualsiasi oggetto sia disponibile, tempi di lavorazione velocissimi e spesso senza i permessi necessari a girare.

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