Intuitivamente ma senza riuscire a darmene un’immediata ragione ho collegato l’ultimo film di Bellocchio al cinema del passato. Capisco che una tale suggestione, nemmeno giustificata da degli argomenti validi, possa irritare qualcuno tra quanti considerano l’autore piacentino un intoccabile baluardo estetico e politico del nostro tempo. Provo a tranquillizzarli, senza un filo d’ironia. Anzi meglio: provo a spiegare a me stesso quell’iniziale sensazione che ha trovato corpo in una definizione ambivalente, in quanto il cinema è stato dichiarato sin dalle origini “un’invenzione senza futuro”, quindi non può che essere passato. Insomma e in modo epigrammatico – tagliando fuori la circostanza che il cinema dà le spalle ai suoi inventori – direi che ogni immagine non è mai presente. Affermazione che però non è ancora sufficiente per individuare quanto vorrei dire. Meglio tornare al film.

Vincere mi pare che sia una riflessione su ciò che il cinema è stato nel Novecento, sulla sua centralità politica, sociale e individuale. Di fatto uno spazio importante della messa in scena di Bellocchio è occupato dalla sala, mostrata come un luogo di esperienze diverse da quelle odierne, con un pubblico che risponde a quanto vede sullo schermo in modo meno vincolante, in cui le regole interiorizzate dallo spettatore paiono non mettere in primo piano l’aspetto estetico dell’evento. Mi riferisco alle discussioni animate che, durante una proiezione, si scatenano tra interventisti e pacifisti sulla prima guerra mondiale, con il giovane Benito Mussolini schierato con i primi. Quando poi il protagonista, interpretato da Filippo Timi, è ricoverato in un ospedale da campo, anche in quell’ambiente su una parete c’è un telo dove si racconta la passione di Cristo. Ugualmente nel giardino del manicomio in cui è rinchiusa Ida Dalser si dà, su un lenzuolo bianco improvvisato, Il monello di Chaplin.

Ci sono inoltre le immagini di repertorio, insieme alle scene girate dentro le sale, che puntellano gli avvenimenti storici della vicenda. Ma ancora di più e di massima evidenza, rispetto a quanto da me suggerito, c’è una trasformazione “miracolosa” del protagonista Benito Mussolini che scompare dalla vita “reale” di Ida Dalser per diventare il Duce nei cinegiornali Luce. Tanta e tale è la potenza del cinema sulla realtà da cancellare la presenza in carne e ossa di un essere umano per essere tradotta in un segno o simbolo, come al tempo stesso chi sta fuori dall’inquadratura non esiste, in un regime di paradossale reciprocità che pone una distanza incolmabile tra chi vede e chi è visto, fra l’esistere sotto lo sguardo altrui e il non esserci in assenza di un qualcuno che ci guardi.

In fondo il rapporto fra Benito e Ida non si situa tutto dentro una traiettoria di sguardi divergenti? Le note melodrammatiche che Bellocchio intesse, con accenni musicali provenienti dall’opera, in particolare dall’Aida di Verdi, non stanno lì per raccontarci l’impossibilità drammatica di un convergere tra i due? In questo non-incontro fra Benito e Ida è espressa la potenzialità negativa dell’immagine, in quanto capace di illudere con grande verosimiglianza e di lasciar credere qualcosa che ha la sostanza di una finzione.

La sala cinematografica dunque come un luogo “politico”, quindi un posto di partecipazione alla vita sociale, ma anche il modo con cui il “potere” può entrare nell’immaginario delle persone. Tuttavia per capire quanto è stato il cinema nel secolo scorso bisogna andare al di là della dimensione manipolatoria e oltre la sua forza di sintonizzarsi con quanto accade nel mondo, altrimenti detto con la possibilità di osservare la realtà e registrarla.

Lo sforzo di superare questi aspetti è presente in Vincere che mostra quanto sia lo stesso cinema a dare un contributo attivo alla definizione del quadro generale sociale, alla stessa maniera di quanto accadeva nell’Atene del V secolo a.c. con la tragedia. C’è in Bellocchio una piena coscienza interpretativa e di riformulazione dei rapporti per mezzo degli strumenti tipici del cinema, come il montaggio per esempio. Non meno importante sono i miti e i riti prodotti da chi realizza immagini in movimento che possono diventare contenuti e forme di riferimento per un’intera collettività, anche questo aspetto è messo in evidenza nel film. Ma questa forza il cinema  – quella di essere protagonista dinamico della scena pubblica – l’ha avuta particolarmente nel secolo che ci sta alle spalle e per questa ragione mi pare che Vincere racconti meglio il passato che il presente.

2 Replies to “Lo sguardo di Bellocchio sul Novecento”

  1. Finalmente un’analisi azzeccata sul film. Complimenti. Vorrei che l’autore approfondisse ancor di più gli aspetti evidenziati. Grazie

  2. grazie per il complimento. non credo sia possibile esaudire questo suo desiderio in questo momento. posso consigliare però un libro che permetterebbe un approfondimento sulle questioni da me esposte: L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità di Francesco Casetti

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