[***½] Mockumentary su un finto reality. Ovvero un finto documentario sul dietro (e avanti) le quinte di uno show immaginario. Una finzione che ne incorpora un’altra per dar luce a qualcosa di sinistramente limitrofo e famigliare.
Bill Guttentag, due volte premio Oscar per i suoi cortometraggi Twin Towers (2003) e You Don’t Have To Die (1989), qui al suo primo lungometraggio di finzione, assolda Eva Mendes (anche in veste di produttrice) per farle indossare i panni della dirigente televisiva Katy Courbet intenta a risollevare le sorti di una emittente televisiva americana. Ossessionata dagli indici di ascolto e dalla competizione con gli altri network sul terreno dei reality show, Katy Courbet concepisce il reality più estremo mai pensato prima: il gioco della roulette russa in prima serata.
Katy Courbet potrebbe essere una qualsiasi delle rampanti e assatanate cacciatrici di audience, e ha persino una certa somiglianza con una delle nostre. Cerca qualcosa d’inedito, difficile di questi tempi, per accaparrarsi una grossa fetta di spettatori. E se in una riunione creativa a qualcuno viene in mente la roulette russa con annesso morto, la geniale idea da bizzarra e macabra si trasforma in ambiziosa lotta per varcare quel limite etico/morale che la comune coscienza reputerebbe invalicabile.
Una trama che promette poco in quanto a credibilità e probabile riuscita nel meccanismo della sospensione dell’incredulità, acquista invece forza e potere di analisi non solo (e non tanto) grazie al realismo del mezzo tecnico (il finto documentario appunto), quanto nel seguire la consequenzialità produttiva di un’idea televisiva: dalla sua nascita fino alla concretizzazione del programma ed alla sua messa in onda, scardinando ogni presupposto che si vorrebbe ingenuamente ludico/veritiero di un reality e palesandone le logiche interne. Attraverso il finto documentario Guttentag ci mostra un congegno di produzione televisiva assolutamente verosimile, vera forza del film, da cui far partire una riflessione sul rapporto tra pubblico e network, etica e denaro, limite della decenza e desideri del pubblico.
Il riluttante e turbato avvocato dell’emittente, di fronte all’indiretta pubblicità che le critiche negative alimentano al solo vociferarsi della probabile messa in onda di un simile show (bene o male, purché se ne parli!), intraprende una battaglia legale per superare gli ostacoli imposti dalla censura e lo fa armandosi degli interstizi della costituzione e appellandosi alla famigerata libertà di espressione! Fantascienza? Sicuramente, o quantomeno ce lo auguriamo. La nota inquietante è che non si è mai sicuri di dove si possa arrivare quando in ballo, per mascherare i reali meccanismi e presupposti di un’operazione intrapresa per fini economici o di successo personale, sono eccessivamente annoverate le così dette “libertà di”, tralasciando le imprescindibili e dovute “libertà da”.
Non basta l’attrattiva della spettacolarizzazione della morte a fare del reality Live Il reality della storia. Anche se “dal Colosseo romano… alle folle a Parigi che venivano a vedere la ghigliottina, gli uomini sono sempre stati affascinati dalla morte e, cosa più importante, dal fatto di assistere alla morte” e anche se una grossa fetta di telespettatori vorrebbero le esecuzioni capitali in tv, come sostiene la protagonista, al fianco della morte in diretta c’è bisogno anche di una “narrazione” che la contestualizzi e la renda maggiormente appetibile ad uso e consumo del pubblico. Katy Courbet sa che gli aspiranti suicidi presentatisi ai provini non costituirebbero quel surplus d’immedesimazione e di “realtà” che solo le persone comuni potrebbero dare ai telespettatori. E così, per attirare ai provini una moggiore varietà di potenziali concorrenti, la posta in gioco aumenta: 5 milioni di dollari per chi rimane vivo. 5 milioni di dollari per arrivare ai sei protagonisti ordinari, ma abilmente costruiti nel taglio documentaristico dei loro profili di presentazione: nella videointroduzione di ognuno di essi, si sottraggono e si aggiungono porzioni di realtà per creare ad arte una “iperrealtà” bloccata e senza sfumature, priva d’indeterminatezze, ma abbastanza salda da poter attingervi solidi caratteri umani da amare o odiare a seconda dei gusti.
Lo share raggiunge picchi altissimi (negli Stati Uniti i dati arrivano in tempo reale), ad uno dei sei concorrenti saltano le cervella. Silenzio. Attimi di orrore. Le luci si abbassano, pochi secondi e la musica in crescendo celebra commossa il vincitore! Pronti per una nuova edizione da inserzioni pubblicitarie multimilionarie ma con una nuova madrina del programma, la prima purtroppo ci rimette anch’essa le penne in un finale troppo sbrigativo, parzialmente consolatorio e tagliato con l’accetta. E si esce dalla sala con un inspiegabile senso d’inquietudine.