the returnCome accordare il candore congelato nell'espressione monocorde di Sarah Michelle Gellar con l'impianto psico-thriller messo in piedi da sceneggiatore e regista? E' vero, non è solo in questo scarto che il film si gioca parte della sua credibilità, e forse nessuno si risentirà se la storia di Joanna diventerà uno dei tanti film dignitosi ma "perdibili" in quello sterminato territorio che è il genere horror/thriller. Pronti? via! e siamo già dentro un immaginario filmico da incubo. Le giostre. Di notte. E quelle voci. Un loop ossessivo che rimbalza nella testa di Joanna piccola, sei o sette anni, accompagnata dal padre (Sam Shepard, proprio lui… in un ruolo che convince poco). Un istante di distrazione e la fanciulla si smarrisce tra l'indifferenza della folla. La scena che segue si ripeterà più volte nel corso del film: Joanna inseguita si ritrae in angoli bui, dai quali vedrà sempre e solo le gambe di una misteriosa figura che soltanto nell'epilogo verrà svelata per intero. Del resto, se questo film ha un merito è quello di tenere tutti i punti interrogativi sospesi fino all'ultima inquadratura, garantendo suspence e attesa. Elementi di certo non secondari per un thriller. E se l'effetto funziona, lo si deve in parte a una sceneggiatura che rimuove l'intreccio, articolandolo sul binomio passato/presente e in parte a una regia che cattura l'ambivalenza di fondo, in un Texas destrutturato, ridotto a uno sfondo allucinato, in cui gli assolati "grandi spazi" vengono meno in favore di interni sordidi e case dalle inquietanti presenze. Non mancano i cow boy a presenziare questo pezzo di mondo in disfacimento: birra in mano e passo incerto. Fantasmi barbuti, che bofonchiano all'ombra di una spettrale e grigia raffineria che succhia il sangue alla Terra.

La Salle. Il suo luogo di infanzia. E' proprio qui che Joanna, ormai adulta e affermata rappresentante per conto di una compagnia petrolifera di St. Louis, viene spedita dal suo datore di lavoro ma, soprattutto, è in questa sordida provincia texana che si annida il mistero delle sue visioni, che si manifestano con violenza, e che la convincono a seguire le tracce di un passato ancora troppo oscuro per essere superato. Il suo viaggio di lavoro è in realtà proprio un viaggio verso il suo passato (the return, appunto), dove il passato non è semplice memoria ma luogo psichico dove risiedono le radici della sua condanna, quella che la fa vivere in un incubo interiore e che la vuole perseguitata da un assassino. Nella sua mente tutto vive in uno spazio unitario e indistinto. Il passato e il presente non sono da lei percepiti come dati temporali, ma diventano categorie psichiche che si intrecciano continuamente, e le continue visioni di cui è vittima preludono a un futuro minaccioso oltre che alludere a inquietanti ricordi infantili. Ma l'eroina è determinata a capire l'origine delle proprie visioni e non arretra neanche di fronte ai pericoli più terribili. Si appoggia all'unica amica rimasta in città, chiede chiarimenti al padre sulle pulsioni suicide che aveva da bambina, e continua a farsi guidare dalle orrende visioni in sottoscala bui, in angusti spazi, per cercare la verità. Ma soprattutto conosce Terry (Peter O' Brian, anche lui un po' imbalsamato), cupo cow boy dal passato misterioso, che l'aiuterà a risolvere l'enigma.

Asif Kapadia dissemina qua e là una serie di indizi ed episodi organizzandoli in modo tale da far affiorare una realtà speculare a quella che vive la protagonista, in cui tutto, personaggi e fatti, ha il proprio doppio, marcando così uno dei temi di fondo del film che ha il suo rilievo semantico nella presenza dello specchio. E' proprio nello specchio che Joanna vede riflessa l'immagine di una ragazza già comparsa in una delle sue visioni. Ed ecco che le oscure proiezioni di Joanna si schiariscono in ricordi, e le sue visioni frammentate cominciano a comporre un quadro sempre più chiaro.

In bilico tra pulsioni sovrannaturali e vaghi accenti psicanalitici, il film accenna temi che poi non sviluppa fino in fondo, come il personaggio del padre della protagonista, talmente laterale da rasentare l'inutilità, e le continue strizzate d'occhio al Lynch di Strade perdute alla lunga rendono insofferenti. Ma è impaginato con una certa sapienza. Coglie l'effetto giusto specialmente nelle scene di suspence, in cui la macchina da presa, sempre rigorosamente a spalla, si muove lenta e sorniona dentro la scena, come fosse un personaggio della storia. Ha un andamento costante e teso,  una struttura ritmata che ne connota le tematiche: soltanto dopo una completa rimozione delle ambiguità del passato, sarà possibile stabilire un rapporto pacificato con il presente. E tutto può ritrovare la sua naturale collocazione. L'epilogo risolutivo si svolge infatti sullo stesso luogo dove sono cominciati i problemi di Joanna: un incrocio stradale dove avvenne l'incidente fatale che ne causò i disturbi mentali, e dove, circolarmente, si rincontreranno gli stessi protagonisti al termine della vicenda. Il passato tornerà a vivere nello spazio della memoria, il futuro è una strada dritta e lunga verso ignote mete. Ma ora fa meno paura. 

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