Probabilmente dalla morte di Florian Fricke Herzog era alla ricerca di un suono originale per le sue visioni, quello che i Popol Vuh avevano fornito da Aguirre a Cobra verde con la loro psichedelia sacrale e vintage, esatto contrappunto al progetto herzoghiano di esplorazione concettuale ed esperienziale di uno spazio-tempo ancora immaginativamente vergine.

Trovatolo nel violoncello di Ernest Reijseger, imbevuto di sincretismi transculturali, tessitore di ponti tra jazz e classica, vocalità africana e canto a tenores, ha potuto spiegare le ali al suo nuovo volo. Sparare nello spazio i Tenori di Orosei è già una bella dichiarazione d’intenti, e i balletti antigravitazionali di The Wild Blue Yonder nulla infatti ritengono della magniloquenza coreografica kubrickiana. Niente odissee, da queste parti, solo una piccola fantasia interstellare dalle arcane risonanze, che dimostra come il veggente bavarese sia sempre più un Rossellini che, abbandonate le strettoie della fiction, si sia votato alla sovversione piuttosto che alla didattica dell’audiovisivo.

 

Ecco perciò le smaccate lezioni di astrofisica corteggiare il delirio fantascientifico, o le massicce dosi di found footage di provenienza Nasa o subglaciale mutarsi in serbatoi poetici, stesso trattamento riservato altre volte ai salti dal trampolino di Steiner o al petrolio kuwaitiano in fiamme. Il dato informativo viene sistematicamente trasceso, sempre all’interno però del rispetto baziniano per l’evento, sequenza dopo sequenza. La dilatazione lisergica avviene proprio limitando i tagli al minimo indispensabile e lasciando al gesto la libertà di svolgersi in tutta la sua estensione, allo sguardo la possibilità di immergervisi e perdersi. Proprio come le estasi di Fricke si proponevano in arcaica umiltà acustica, in netta contrapposizione alle suite elettroniche degli altri corrieri cosmici teutonici dell’epoca, i trip di Herzog non vogliono dar forma agli spazi intergalattici, ma godono nel nebulizzarsi e rovesciare le prospettive tra altezze e profondità.

 

Per il resto siamo di fronte a un’altra variazione sulla follia umana (l’andromediano Brad Dourif non sarà un post-Stroszek che proietta nell’infinito il fallimento del sogno americano?), un nuovo ironico viaggio dentro un paesaggio alieno (nei modi del pastiche docu-fantastico sperimentato dall’insuperato Fata Morgana), un’ennesima lezione dalle tenebre sulla vanità delle pretese di conquista dell’uomo civilizzato. Madre Natura vince sempre, nelle partite herzoghiane, e solo un occhio timoroso e puro può continuare a testimoniarlo.