Nei circuiti letterari il 2012 rischia di essere ricordato soprattutto per l’impressionante numero di librerie e case editrici che sono state costrette a chiudere. Il doppio anniversario della nascita e la morte di John Cheever (1912-1982) in questo senso è caduto sicuramente in uno degli anni più bui che il mercato editoriale abbia mai potuto registrare.
Anche se sottotono, comunque le varie commemorazioni dedicate al grande scrittore americano hanno portato fortunatamente ad alcune operazioni di assoluto rilievo e in grado di farci avvicinare ad aspetti inediti e assolutamente struggenti di tutta la sua opera. In Italia per esempio – dopo un’interessante antologia di racconti – è uscita recentemente sempre per Feltrinelli Una specie di solitudine, una collezione intima e disarmante di oltre trent’anni di memorie e riflessioni sparse dell’autore di Falconer. Oltre a rappresentare uno spaccato autentico della vita e le contraddizioni di uno dei talenti più folgoranti della narrativa contemporanea, questi Diari riescono a esprimere alcuni momenti di letteratura incredibilmente alta e sono in grado di imporsi autonomamente come un capitolo a parte e decisamente compiuto della sua già splendida blbliografia.
Il fatto che siano brevissimi i riferimenti agli eventi della storia statunitense che segnano gli oltre trent’anni di vita che trascorrono in queste pagine e che Cheever si specchi in modo estenuante nel rapporto con il suo alcolismo, l’adulterio o la propria idea di salvezza conferisce a molti passaggi più il registro di alcune confessioni di Robert Lowell che non quelli di un memoriale di un grande scrittore di racconti brevi.
La ricerca incessante e quasi salvifica del calore della bellezza della natura e di un appagamento sensuale quasi annichilente del resto, sono confessati in queste pagine quasi con una tensione che tende all’estasi. Il formato brevissimo e ripetitivo dei passaggi che compongono il libro tende quasi sempre più al linguaggio di una poetica pura più che non a quello di un’autobiografia vera e propria.
La circostanza che nel ’42 Cheever fu trasferito all’ultimo da quel battaglione Americano che poi sarebbe stato inviato e massacrato nello sbarco in Normandia fa interpretare in maniera ancora più intensa il suo personalissimo rapporto con la salvezza e la religione, reso in queste pagine sempre in maniera controversa, ma assolutamente libera dall’idea cristiana del peccato. Ancora più struggenti sono i passaggi che spiegano nel corso del tempo il suo rapporto di amore e repulsione verso la moglie, tradita spesso anche con rapporti extraconiugali con altri uomini. Sapere che il suo analista David C. Hays dichiarò che Cheever inventò una moglie maniaco depressiva per sublimare molti dei suoi nodi irrisolti oltre che a rendere ancora più toccanti le pagine, le colora di una psicologia profonda e sgranata, proprio come le migliori immagini di Malick.
Capiamo perfettamente chi ha chiuso la porta a The tree of Life. Gli splendidi momenti di luce familiare nell’America di provincia degli anni ’50 che si intravedono in quel film comunque sembrano essere animati direttamente dall’idea di bellezza e malessere che vibrano incessantemente in questo libro e che riescono sempre a coinvolgere il lettore tramite un tipo di estro narrativo che oggi è sempre più raro trovare. Se i bagliori nella penultima e controversa opera di Malick possono sembrare intermittenti e scostanti in Una specie di Solitudine riusciamo ad assistere invece ad un livello di ispirazione costante e continuo, come se, fino all’ultimo, il talento di Cheever trovasse linfa dalla sua innata e strabordante carica dionisiaca. Sempre sull’orlo di reprimersi o sfinirlo senza pietà.
Leggendo Una Specie di solitudine viene da ribadire continuamente un parallelo con il cinema proprio perchè, così come accadde a Raymond Carver, Cheever insiste e definisce un immaginario che poi nel tempo è stato ampiamente saccheggiato da molti registi indipendenti americani, anche sei poi, le trasposizioni cinematografiche ufficiali furono pochissime. Da ricordare, Un uomo a nudo di Frank Perry tratto da The Swimmer nel caso di Cheever.
E’ inevitabile anche il paragone con Carver, perchè i due autori sono sicuramente i due maestri del racconto breve americano e nonostante i numerosissimi punti di contatto come l’alcolismo, la vita coniugale tormentata o il successo tardivo hanno anche delle differenze macroscopiche.
Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto del resto pur riconoscendone la grandezza, individuava in Carver il simbolo di quel tipo di autore che di colpo, dalla fine degli anni’ 70 non pensa più a nulla. In una forma sublime, infatti, le short stories dell’autore di Cattedrale segnerebbero il passaggio della letteratura a semplice narrativa, in una scrittura che si limita a parlare della singola porzione di mondo che si conosce, senza alcuna altra aspirazione che non sia quella di piacere al più alto numero di lettori. Se così Carver mira all’osso delle cose, limando e asciugando sempre all’essenziale in questi Diari Cheever è capace di dare un tocco impressionista a tutto l’universo che lo circonda, riuscendo a trasalire in una resa dei conti continua con se stesso ad alcuni temi trascendenti e assoluti che oltretutto maneggia con una lucidità estenuante.
In Una specie di solitudine, si sprofonda in un continuo viaggio letterario anche per le frequenti e lucidissime impressioni che l’autore riserva ad alcuni suoi colleghi come Nabokov, Updike, Saul Bellow, Roth e soprattutto Hemingway. In questo senso è incredibilmente sorprendente come Cheever riesca a riproporre alcuni ambientazioni virili dell’autore di Addio alle armi, come la pesca o il nuoto nei fiumi di montagna, con l’eleganza e il tocco femminile di Virginia Woolf.
L’assoluta simbiosi di Cheever con la letteratura tocca momenti ancora più culminanti nelle ultime pagine del libro, quando raccontando di come la malattia lo costringa lontano dalla macchina da scrivere sembra descrivere con una lucidità agghiacciante l’immagine della morte.