Antonio Tabucchi appartiene a quel genere di scrittori che non amano ancorare la scrittura a fatti e psicologie precise, preferendogli i percorsi più incerti dei segni casuali e quelli molteplici delle ombre -tutti i possibili doppi che tanto lo scrittore quanto noi lettori saremmo potuti essere.
Tanto più in Notturno Indiano, breve (ma il tempo, qui, è soprattutto astrazione e il confine tra ciò che è breve e ciò che non lo è si dissolve presto), breve, dicevamo, diario di viaggio in cui il tempo cronologico dello svolgersi della storia narrata in prima persona (il tempo della realtà) vede la sua linearità andare in frantumi laddove a ogni capitolo del libro potrebbe benissimo corrispondere l’inizio di una diversa e possibile storia (il tempo dell’immaginazione). Così che allo scorrere continuo ma anche obliquo del tempo, viene affiancato lo spazio incongruo (termine caro all’autore) dell’incontro. Tabucchi, in questa prospettiva, dilata il tempo e lo spazio del racconto attraverso l’inserimento sistematico della digressione, figura narrativa non autoritaria né preordinata, che finisce per suggerire l’intensità espressiva e figurale dell’apertura quale unico modo possibile del divenire delle relazioni e del sé.
A tal fine, l’autore costruisce trame sottili, e non sempre logiche, che si allungano e si diramano ponendo sempre, tuttavia, allusivi interrogativi sui grandi temi dell’esistenza – ci sono sovente domande filosofiche come, ad esempio, quelle poste dal tizio morente alla fermata dell’autobus spazianti dall’essere (“che cosa ci facciamo dentro questi corpi?”) al linguaggio (“Pratically… Actually… che parole curiose, le ho sentite tante volte in Inghilterra, voi europei usate spesso queste parole”, “Non sono mai riuscito a stabilire se è per pessimismo o per ottimismo”). Grandi temi, dicevamo, rispetto ai quali i più pressanti, seppur tracciati lungo viavai sotterranei e labirintici, sono quelli, già accennati, del Tempo e del doppio, e quelli, poi, della realtà e della finzione immaginativa, degli equivoci indotti dall’essere e dall’apparire (rappresentato anche dalle tante maschere indossate: il parrucchino del dottore, i mascheramenti diffusi al Taj Mahal, il cambio di nome di Xavier). Niente è ciò che sembra (neanche l’intolleranza dello gnostico).
E il viaggio, parrebbe ribadire l’autore, è anzitutto apertura al contesto che però, allo stesso tempo, è anche perdita di ciò che si era prima di partire -e la nostalgia che si percepisce in queste brevi e dense pagine, è lì a ricordarlo. Nostalgia per l’amico scomparso, per vecchi amori, per un tempo perduto fatto di lentezza e tracce da inseguire e immaginare. In una tensione tra il divenire del futuro e la perdita dell’inizio nella quale le false piste sembrerebbero il dispositivo con il quale entrare in una reale relazione con l’Altro. Dove lo spazio del reale, però, non coincide con quello della realtà, essendo quest’ultimo privo dei “fatti dell’immaginazione”. Così che il luogo geografico scelto dall’autore finisce per assumere un significato simbolico pregnante, poiché, contrariamente all’occidente, in India la consapevolezza che tutto sia un sogno è molto diffusa.
Inoltre – e stavolta rimanendo in ambiti più europei – Tabucchi in Notturno Indiano sembra voler superare le vedute piccole e miserabili delle ordinarie esistenze attraverso la costruzione di forti affinità (seppur legate da fili narrativi esili) con un ristretto gruppo di eletti. Un’idea di comunità libertaria e in parte anche aristocratica che si ricollega a quella di Alvaro Mutis e di Fernando Pessoa. Dove l’inseguire sottili e composite linee, che suggeriscono il movimento libero, è anche il porsi il problema del loro dominio. Il dominio della libertà, allora, diventa l’unico paradosso possibile.
Un ultimo punto, ma forse anche il più importante, è quello dichiarato in chiusura dallo stesso autore commentando una fotografia: “l’ingrandimento falsa il contesto, bisogna vedere le cose da lontano”. Da una parte un invito (un invito filosofico) a pensare all’esperienza con una certa distanza, dall’altra, e se scorriamo indietro di qualche pagina il monito diventa più chiaro, un’esortazione a non far spettacolo della vita (che come si scoprirà è anche dolore e morte, ossia l’altra faccia della incongrua medaglia). Uno stimolo ad allargare il campo dell’inquadratura della fotografia, a spostare il focus dall’ingrandimento dell’emozione (spesso falsa, sempre dall’autore comunque costruita) alla conoscenza del contesto, poiché, citando Jean-Luc Godard, “ogni inquadratura è una questione morale”. Ed è qui che Tabucchi diventa anche un autore politico, e cioè quando, sfuggendo alla tentazione di fare della letteratura una mera consolazione e ancorando l’immaginazione e il sogno a una visione morale, si assume la responsabilità di una affermazione:
“Mè fiez-vous des morceaux choisis”.