di Fabrizia Brandoni/ Negli ultimi dieci minuti de I compari ci sono molte cose, poiché Altman, come del resto in tutto il film, utilizza pienamente (cioè dando continuamente senso ad ognuno, senza gratuità alcuna) gli strumenti propri del cinema: l’inquadratura, il montaggio, la musica.
E, dalla loro rigorosa, sensata composizione, costruisce significato:
qui ad esempio, è proprio il montaggio alternato che restituisce, senza bisogno di parole, l’opposizione tra la storia individuale e quella collettiva, tra la vicenda di Warren Beatty, romantica e drammatica, ma ormai fuori dalla storia, (che infatti, sotto forma di polvere di neve, silenziosamente lo ricoprirà, non permettendogli neanche di rientrare e morire al chiuso, al caldo) – e la Storia collettiva, che è insieme grandiosa e puerile, capace di imprese grandi, come spegnere un incendio, ma per preservare un’istituzione come quella religiosa, senza neanche chiedersi fino in fondo perché e se sia importante farlo: ma la storia va anche così, e il capitalismo statunitense delle origini, non si è certo sviluppato attraverso la presa di coscienza di chi sudava per farlo crescere, bensì proprio attraverso la grandiosa sottomissione di masse di uomini che, senza accorgersene, con la loro forza fisica, le loro energie umane, affettive, l’adattamento e la trasformazione dei loro bisogni e delle loro capacità, davano il loro contributo fondamentale ad un passaggio di civiltà.
E, sempre attraverso lo stesso montaggio alternato, in simultanea, ( proprio questo è qualcosa che solo attraverso il cinema rende possibile), c’è la storia di lui e di lei: lei al chiuso, al caldo, avvolta nei colori del marrone, del giallo; lui fuori, al gelo, tra il grigio e il bianco.
E allora, così, attraverso questa alternanza di inquadrature, la storia individuale, la storia d’amore, si mescola al corso della Storia che, con la sua forza da carro armato, non lascia fuori i sentimenti degli individui, non li risparmia, perché è sempre dentro di essa che questi possono o non possono esprimersi.
E la voce calda e riconoscibile di Leonard Cohen arriva proprio per accompagnarci nella visione di tutto questo, arriva insieme per avvolgere e per permettere di distaccarci, poiché, anche nei momenti più drammatici, (ricordate la scena delle ragazza con il coltello?), irrompe con tono malinconico: non per aumentare o amplificare il dramma, la disperazione, ma al contrario, per stemperarli in una specie di contemplazione amara, necessaria, e insieme intenerita di come va il mondo, capace, questo mondo, anche nei momenti di passaggio, di trasformazione da una fase ad un’altra, di esprimere tanta vita, (tutta quella del bordello, e le energie per costruirlo, e le dinamiche affettive e insieme economiche che esso crea). Per Altman vale la pena di raccontarlo, anche, (o forse proprio), se è una storia di perdenti… anche se è uno scampolo di un mondo che viene spazzato via.
Trav’ling lady, stay awhile
Until the night is over.
I’m just a station on your way,
I know I’m not your lover
Una poesia malinconica della morte. Ma anche una rappresentazione brutale del capitalismo. Winter lady è un pezzo meraviglioso. Brava Fabrizia, ho proprio voglia di rivederlo