[***12] – Libano.“Terra dei cedri e degli olivi che muta guardi il sangue dei tuoi figli e le tue città ferite tu non conosci la pace…”
L’immagine di un ordinato cimitero di girasoli apre le immagini del film. E' un esercito obbediente di teste piegate nell’unica direzione possibile. Tanti occhi puntati verso lo spettatore a domandare la ragione di quel vento che li investe. L’incantesimo della metafora si interrompe qui. Entra in scena la guerra. Libano, 1982, operazione militare “Pace in Galilea”. Questo non è più il Paese dei cedri dove gli europei vengono a trascorrere le loro ferie, ma una terra martoriata da un intricato conflitto etnico-religioso che va in onda nei telegiornali.
Agli occhi del mondo questa striscia angusta di terra schiacciata tra il Mediterraneo e una catena di monti è il Medioriente, la zona calda del pianeta, con la sua dannazione eterna, la coazione a replicare nei secoli lo scontro religioso per rivendicare un lembo di terra, un fazzoletto tinto dell’identico sangue di una ventina di etnie. A dirci cos’è il Libano visto dall’interno, cos’è la guerra combattuta, che occhi ha la paura e che odore ha la morte quattro giovani della leva israeliana. Non sono eroi ansiosi di sacrificarsi per la patria, ma ragazzi spaventati dalla morte. Nelle loro teste c’è tutta la retorica della guerra racchiusa in una frase ben impressa sul cingolato: “Il carro armato è ferraglia, l’uomo è d’acciaio”, un'immagine che è insieme diktat e infausto presagio. La guerra che uccide non era contemplata nell’esperienza di questi ragazzi addestrati al protocollo dell’esercitazione permanente in attesa del sicuro congedo.
Nella pancia di un carroarmato che è già tomba, avanzano, meglio arrancano, lungo una traiettoria bonificata sulla carta e decisa a tavolino dalle gerarchie. Procedono in direzione di un hotel che ha il suggestivo nome di una località della costa azzurra, ma che in questa terra significa sopravvivenza. Caduti nella cerchia della milizia siriana e aiutati dai falangisti cristiani, hanno smarrito le coordinate etnico religiose di questa guerra.
Il carro armato è uno spazio angusto dove è quasi impossibile dormire, muoversi, fumare, orinare, respirare: è la guerra stessa che ti viene sbattuta in faccia. Qui la guerra è in soggettiva. Adesso il mirino del carro armato inquadra anzi simbolicamente “incrocia” gli incolpevoli e si sofferma sui loro sguardi. E la prospettiva di questa guerra si ribalta. L’occhio del militare e l’obiettivo del mirino sono sgranati di fronte all’Orrore che si apre alla vista. Eccoli i volti trasfigurati, gli sguardi pietrificati dei civili di ogni guerra.
Gli occhi vitrei biblici dell’anziano che sfida l’ottusità della guerra rimanendo seduto al bar in attesa che il suo avversario riverso sulla scacchiera faccia la prossima mossa e continui il suo gioco anche se è rimasto l’unico superstite. Sono gli occhi smarriti del bambino che esce da una porta e pare rincorrere un pallone mentre scappa dalla morte che ha già raggiunto dentro casa tutta la sua famiglia. E’ lo sguardo minaccioso del falangista cristiano che entra nell’abitacolo e descrive minuziosamente all’ostaggio siriano le torture che lo aspettano.
Il carro armato procede e adesso inquadra un interno familiare. C'é ancora una famiglia viva, ancora viva. L’obiettivo centra lo sguardo implorante del giovane padre, inquadra la disperazione che riempe gli occhi della giovane madre, per un secondo incontra l'innocenza della loro bambina. Un ordine cieco decide che un terrorista vale tutte queste vite tenute in ostaggio; sono armi troppo deboli queste vite puntate contro la coscienza del più forte, inconvenienti preventivati nel conto guerra. Occhio per occhio è la legge dettata dall'antico testamento che non si è mai prescritta. Poi, la tragedia della sopravvivenza della madre che ha perso tutto ed è nuda (letteralmente) davanti a quell’obiettivo, unico possibile interlocutore cui domandare ossessivamente che fine ha fatto la sua bambina; é l'umanissima follia di una donna che chiede conto di quella follia pianificata che nella sua meschina inumanità si avvale di un espediente lessicale per aggirare anche le convenzioni di guerra, chiamando fumogeni le bombe al fosforo con cui continua ad uccidere
Un anno fa Valzer con Bashir, opera del visionario Ari Folman aveva raccontato la coscienza della guerra, le sue devastanti ripercussioni psicologiche, quei mostri interiori che come un branco di cani neri latranti inseguono ovunque, in Lebanon non c’è alcuna introspezione psicoanalitica, la narrazione non conosce sfasature temporali che accompagnino il ricordo, lo sguardo è tutto dentro la guerra, emblematicamente dentro la pancia di un carro armato nel momento in cui viene combattuta, con tutto il suo caldo, la paura, la puzza, la morte. Leone d’oro ad un’opera prima di un regista israeliano che nel raccontare la guerra con il suo occhio sbarrato sui civili denuncia la responsabilità del suo Paese che ancora assegna un prezzo diverso alle vite degli incolpevoli.
complimenti, dovresti fare la critica cinematografica. sembra che nella vita non hai fatto altro.