Lo sguardo umano non può cogliere il Grande Raccordo Anulare, l’unico modo per esser certi con gli occhi che esista nella sua interezza, con quella geometria che prende nelle mappe (l’anello stradale più grande d’Europa che circonda Roma), è attraverso una posizione impossibile: dall’alto. Per vederlo in tutta la sua estensione bisognerebbe porsi su nei cieli, prendere un aereo a passarci sopra e documentare la sua particolare esistenza in quella forma con una macchina fotografica o una videocamera. O altrimenti essere un dio capace di stare dentro i fenomeni e al tempo stesso completamente fuori, una condizione paradossale che si avvicina al lavoro della macchina da presa.
Il film di Rosi mi pare giri intorno a questa impossibilità naturale dell’occhio umano di inquadrare il GRA che finisce per svelare la parzialità dell’apparato tecnologico, cioè del cinema quale costruttore d’immagini che chiede a chi guarda di credere in quello che vede. L’illusione di restituire l’intero, il controllo totale della realtà, la verità del visibile, qui viene meno, come se lo statuto stesso del Raccordo imponesse dei limiti. Ci troviamo di fronte ad una strada che è una ri-velazione, che si mostra e si nasconde, che ispira timore e attira, una presenza per certi versi invisibile, maestosa e potente, ci troviamo davanti all’esperienza del sacro. Il numinoso, per noi contemporanei, può anche essere una reazione alla frustrazione provocata dal nostro rapporto illusorio con la tecnica (il GRA è un manufatto tecnico). La promessa di perfezione in essa contenuta è infatti un inganno, perché altro non è che la ripetizione dell’uguale, la circolarità infinita, dentro la quale si finisce schiacciati, per poi sentirsi subito dopo spaesati e soli, a quel punto lo sguardo finisce dritto in cielo, in cerca di una risposta, il mondo si carica di valenze misteriose e poco decifrabili. L’esperienza delle contemporaneità è anche questo: il sacro quale spaesamento per il soverchiante e incontrollabile ruolo della tecnologia che ci circonda.
Alla parzialità dell’inquadratura, che ferisce l’onnipotenza narcisistica del nostro io-occhio, corrisponde quella di chi riprende. Questo il piano teorico che sviluppa Rosi che per questa ragione esplicita una dimensione del vedere tipica della nostra epoca, nel senso che trova nei nostri giorni una focalizzazione particolare. Insomma con questo film pare dirci che guardare il mondo passa sempre di più attraverso un filtro, uno strumento che media la nostra sensibilità e la nostra stessa possibilità di vedere e di essere visti, che sia una macchina fotografica o un cellulare o un televisore o gli abiti che indossiamo: la superficie delle cose per essere vista deve essere messa in scena, dove un primo e fondamentale requisito è la distinzione tra un dentro ed un fuori, il visibile e l’invisibile di ogni esistenza reale o immaginaria.
Rosi è spesso tentato dal cielo, di piazzare la sua macchina da ripresa lassù, da quel limite che è condizione per il suo progetto estetico e per certi versi ci vorrebbe rimanere tra le nuvole, peccando in qualche misura di estetismo. Poi però scende in basso, guarda il mondo e il Raccordo dal suo punto di vista, umano e reale, raccoglie un fiume di auto in transito che sono tempo in fuga, quasi tentassero di negare lo spazio, l’altra direttrice entro cui gli uomini vivono. Inevitabilmente tuttavia raccontare una strada significa fare perno su quanti ci vivono a fianco, storie di uomini e di donne che sono frammenti isolati, piccole e incolpevoli desistenze ai margini di quel rumore assordante e anonimo che gira intorno alla grande città. Sì, vite prive di una dimensione simbolica e politica. Atomi umani oramai fuori dalla storia, estranei a qualsiasi identità collettiva, come dotati di una ovvia eternità. L’unica lotta è quella dello sterminatore del punteruolo rosso, il micidiale parassita che distrugge le palme nascondendosi all’interno del loro tronco ma che rasenta l’ossessione patologica, la concentrazione della propria vita in unico scopo. Intendo dire che l’orizzonte simbolico entro cui sono immersi i protagonisti è stretto, comprende al massimo qualche famigliare. Certo, suscitano empatia, in quel loro essere assolutamente quello che sono: aneddotici, ripetitivi, quotidiani, inevitabilmente ironici. Le brevi situazioni narrative in cui sono presentati, per quanto Rosi cerchi di non creare un intreccio, spingono lo spettatore a creare dei collegamenti, ad aspettarsi uno sviluppo e una fine. Forse questo è il problema più grande di Sacro GRA.
Infatti c’è qualcosa che non torna, il film termina improvvisamente, quando meno te lo aspetti. Lo spettatore, quale esso sia, ha appena iniziato ad affezionarsi ai protagonisti delle storie narrate che bruscamente il piacere che ne consegue è interrotto con i titoli di coda. La ragione di quello che non esito a chiamare un tradimento delle attese innescate mi sfugge. Non riesco a capire per quale motivo Sacro GRA dopo averti condotto dentro un mondo parallelo e in qualche misura fantastico, dove le ossessioni di ognuno prendono una gradazione emotiva e sentimentale autentica, almeno quel tanto da dare un senso alla solitudine che circonda le diverse storie, ti abbandoni. Forse Rosi ci voleva lasciare in mezzo ad una strada? Scherzi a parte, credo che con un piccolo sforzo, qualunque critico tendenzioso, e quindi infarcito di teoria, potrebbe dare delle giustificazioni convincenti. Ma se dovesse rispondere con sincerità a quello che ha visto cambierebbe opinione. Ne sono quasi certo. Sacro GRA ha il merito di essersi imposto sugli schermi italiani con una forma che fatica tantissimo ad essere distribuita. Ci auguriamo che altre opere di questo genere possano trovare un riscontro nelle sale, anche perché la formula ibrida del documentario di finzione sembra essere particolarmente adatta a raccontare qualcosa del nostro presente. Restano delle perplessità per queste storie lasciate sospese. In sintesi il critico onesto, insieme allo spettatore, quale esso sia, potrebbero entrambi concludere dicendo: – Interessante, ma non mi ha convinto.
Concordo molto! Ma d’altra parte il “tradimento delle attese” di cui scrivi, la “interruzione del piacere”, credo siano proprio una scelta di fondo di Rosi, dal momento in cui decide di mettere in campo (vado a memoria) una decina di personaggi invece di più pratici quattro o cinque: per approfondire tutti e dieci, per dare a ognuno una qualche cinematografica chiusura, ci sarebbero voluti ben più di 90 minuti! E allora mi viene da pensare che l’idea fosse proprio quella di limitarsi a presentare dei volti, lasciando l’immaginazione dello spettatore libera di scegliere su quale di quelle vite fantasticare percorsi ulteriori. Abbandonare lo spettatore in mezzo a una strada allo scopo di svezzarlo. Ma questo può bastare come “missione” di un documentario?
Anch’io concordo con la prima parte della recensione. “questa impossibilità naturale dell’occhio umano di inquadrare il GRA”. E forse, per questo, il film ha assunto la stessa natura informe, la stessa sostanza opaca di un paesaggio metropolitano. Ma forse no. Io ho scelto una chiave di lettura che mi ha permesso di fare un percorso, di oltrepassare il cerchio. Gli animali. Grazie a un impeccabile profondità di campo ci accorgiamo che queste case oltre a essere abitate dalle persone sono abitate da animali. Mi ha colpito come Rosi abbia aspettato, prima di tagliare la sequenza del pescatore d’anguille, l’apparizione del cane, che nei suoi gesti ci restituisce il calore e la familiarità di un luogo abitato. Lo stesso dicasi dei piccoli locali ripresi tutti da un unico punto di vista, dall’angolo alto della finestra. Si scorge un gatto che passa all’interno di una casa e una cuccia in un’altra. Ma gli animali popolano anche i pochi prati rimasti intorno al raccordo, le pecore pascolano a testimonianza dell’orizzonte percettivo di chi ci ha preceduto. Questo però non ci deve indurre in errore, il film non ci racconta una natura buona. Ci parla anche di altri animali, dei parassiti, ci descrive l’orgia degli insetti che sbranano “l’individuo” divorandolo e scavandolo dall’interno fino alla sua morte. Una feroce attività che la si consuma nella più ceca indifferenza. Possiamo considerare questi animali come buoni e cattivi? Io direi di no, non c‘è giudizio. Quello che mi lascia invece il film è un sentimento d’empatia per ciò che nella natura, in quella animale, come in quella umana, c‘è di me. Gli insetti mi ricordano le macchine che passano veloci, in tondo, senza mai fermarsi indifferenti alla vita nel suo quotidiano farsi, ma anche l’espansione di una città, le tante vite che popolano divorando i luoghi come invasori alieni. Ma, allo stesso tempo, i piccoli animali domestici ci ricordano le stesse vite ora abitanti delle case, raccontati nella loro struggente umanità.