Le scaphandre et le papillon, diretto da Julian Schnabel, vince ben due premi al 60° Festival di Cannes: il Premio per la Migliore regia e il Premio Vulcain per l’Artista – Tecnico conferitogli dalla prestigiosa C.S.T., la Commission Supérieure Technique de l’Image et du Son. Julian Schnabel nasce nel 1951 a Brooklyn, New York City. Già conosciuto come pittore alla corte di Andy Warhol, dirige nel 1996 il film Basquiat e nel 2000 Before Night Falls. Dopo questa seconda esperienza da regista, confessa di voler realizzare un nuovo film con un forte significato. Saranno in molti d’accordo nel dire che, con il suo ultimo film, ha di certo attuato questo suo desiderio. Schnabel viene a conoscenza del libro autobiografico di Jean-Dominique Bauby Le scaphandre et le papillon, dopo l’incontro con Fred Hughes a casa di Andy Warhol. Fred, artista affetto da sclerosi multipla, in seguito si aggrava e viene ricoverato in ospedale. Volendo condividere con Julian l’esperienza di chi vive nella sofferenza quotidiana, gli regala il libro di Bauby. Il film, girato tra Berck-sur-Mer, Parigi e Lourdes, inizia con delle immagini indistinte, volutamente sfocate. Delicate sfumature luminose si sovrappongono visualizzando le sensazioni descritte dalle prime righe del libro: “Dietro le tende di tela tarmata un chiarore latteo annuncia l’avvicinarsi del mattino. Ho male ai calcagni, la testa come un incudine e una sorta di scafandro racchiude tutto il mio corpo.”
Jean-Dominique Bauby (1952-1997), interpretato da un encomiabile Mathieu Amalric, è redattore capo della rivista “Elle” fino al 1995, anno in cui una congestione cerebrale e la conseguente locked-in syndrome, la rara sindrome del rinchiuso, lo immobilizzano. La terribile locked-in syndrome, è una patologia che paralizza il corpo ma mantiene la mente attiva e funzionante. Bauby è incapace di interagire, bloccato all’interno di se stesso. L’unico organo in osmosi con il mondo esterno è un occhio: permette di vedere e di battere le ciglia. Un battito per il sì, due per il no. Per poter instaurare un vero e proprio dialogo, lento ma efficace, l’ortofonista, interpretata da Anne Consigny, insegna a Bauby un nuovo metodo di comunicazione: un alfabeto di frequenza della lingua francese, studiato in base al minore o maggiore impiego di alcune lettere rispetto alle altre. L’interlocutore recita la serie di lettere e Bauby batte le ciglia ogni volta che viene nominata quella utile a comporre una singola parola. Mediante questo alfabeto per farfalle, Jean-Do è in grado di scrivere il suo libro, lettera per lettera, aiutato dalla dedizione della sua aiutante, interpretata da una splendida Marie-Josée Croze. Per portare avanti una tale impresa è inoltre fondamentale il supporto e l’amore disinteressato della ex moglie, interpretata da Emmanuelle Seigner, di tutta la sua famiglia, dei suoi amici. Già dalle prime scene, si percepisce la necessità del regista di infondere e condividere con il pubblico il disorientamento, la paura e la perdita di sicurezza di Jean-Dominique. La percezione del mondo di Jean-Do, rinchiuso nello scafandro del suo stesso corpo, è resa tecnicamente tramite l’impiego dello sfocato, delle inquadrature distorte e dalla costante e insistente soggettiva. Con quest’ultima, il regista ci impone il punto di vista scomodo e a volte insopportabile di Jean-Do. In questo modo siamo portati inevitabilmente ad entrare in empatia con il protagonista, tanto da sentirne la fatica fisica.
L’effetto sfocato scelto da Schnabel, può essere ricondotto all’estetica delle sfumature cromatiche tipica degli anni Cinquanta negli States, visualizzata dalle opere pittoriche di Mark Rothko, esponente con Clyfford Still e Barnett Newman della corrente Color field. A proposito dei loro quadri affermano: “la loro spiegazione doveva scaturire da un incontro pienamente adempiuto tra l’opera e lo spettatore”. Forse intendono la stessa empatia che Schnabel cerca con il pubblico di Le scaphandre et le papillon? Anche Bill Viola, l’artista attuale più interessato ai problemi della conditio humana, ai misteri della vita, della morte, della malattia, nei video del primo periodo fa largo uso dello sfocato. Questo effetto visivo è sublimato in opere come Chott el-Djerid (A portrait in Light and Heat) del 1979, dove indaga i misteri del vedere, dell’immaginare, dei miraggi. Da uomo e artista parla di responsabilità: “Responsabilità verso me stesso, la mia famiglia, e la comunità, gli amici e gli estranei. (…) La grande responsabilità della nostra epoca è sviluppare una comprensione e una consapevolezza degli effetti che queste immagini esercitano. (…) tutta la società è analfabeta e subisce il controllo di chi è istruito, cioè di coloro che controllano queste immagini, dei produttori di immagini.” Responsabilità, quindi. Schnabel, con questo ultimo film ha dimostrato di saperlo. Nel film Jean-Do ripete più volte come la fantasia, l’immaginazione e la memoria, e mi permetto di aggiungere l’arte, abbiano il grandissimo potere di rendere la nostra esistenza più vivibile, il nostro dolore più sopportabile, il nostro fardello quotidiano più leggero, qualunque esso sia. “Lo scafandro si fa meno opprimente, e il pensiero può vagabondare come una farfalla. C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida”.