Le meraviglie è un film molto bello, forse anche meraviglioso. La parola evoca le fiabe e il film potrebbe esserlo. Evoca scenari fantastici e quelli che vengono mostrati per certi versi lo sono. Evoca lo stupore di anime innocenti e le risa, gli strilli, i giochi delle bambine sono il volto stesso dell’innocenza (talvolta perfida). Non manca neanche il giovane principe azzurro a liberare la principessina dal suo stato mentale di lieta servitù, ma il film è qualcosa di più, anzi molto di più. Nel film il piano simbolico si intreccia fortemente con il reale, se ne contamina a tal punto che lo scaturire della meraviglia è dovuto proprio all’emergere della forza della realtà e alla sua capacità di conferire senso, materia ed energia a una narrazione altrimenti parziale e forse limitata, quella della trasposizione della fiaba nel mezzo narrativo moderno, nel  cinema per l’appunto.

Penso, quando dico questo, a quei film di genere molto ampio che vanno da La storia infinita, ad Avatar, a Chocolat, fino al fantastico mondo di Amelie, ma ce ne sono tantissimi. Nelle fiabe più riuscite l’elemento che dà concretezza al racconto, che lo struttura, è la paura, la paura come sentimento, ed è solo attraversandone i territori e accettandone le conseguenze (in genere violente) che lo spirito del meraviglioso può accendersi. Similmente nel film di Alice Rohrwarcher la realtà, il principio di realtà, la durezza della terra, la fatica e l’isolamento, i muri scrostati, il ferro arrugginito, i vetri rotti e anche la violenza latente finiscono per avvolgersi e avvilupparsi sul racconto fiabesco del c’era una volta… una famiglia felice o, più modernamente, una comunità felice… Ma la similitudine finisce qui, ed è una similitudine impropria perché nella fiaba la storia finisce proprio con l’instaurarsi della realtà:e il vissero felici e contenti altro non sottende, infatti, che l’inizio dei tempi della fatica, della ripetizione, dell’insoddisfazione, dei tradimenti, dell’invecchiamento. E non serve né basta essere regine o principi per sfuggirne il destino. Dunque il film è l’antitesi della fiaba, poiché la realtà è da subito presente nel film.

Il senso di meraviglia allora risiede in qualcosa di altro. Ed è qualcosa che non è facile afferrare o definire. Forse la bellezza risiede proprio nel suo carattere sfuggente: molte cose sono infatti indefinite e fuori dai normali schemi interpretativi, e per fortuna. Ci troviamo nei nostri tempi, tempi di crisi economica e di smarrimento del senso, e anche là dove dovrebbe essere più radicato, nella campagna arretrata. Ma non si tratta della campagna immaginaria e archetipica, idealizzata, non è un luogo splendidamente isolato nella sua infinitezza, anzi. Quello dove il film è ambientato è più simile a un non luogo così come definito da Marc Augè,  somiglia cioè a quei territori che in urbanistica vengono identificati come marginali: non campagna e non ancora città. Il paradigma è rovesciato: non è più la città a essere circondata, a difendersi, ma è la natura a doverlo fare. In questi luoghi si sono svolte le storie e la poetica pasoliniana, dove le baracche nascondono terribili segreti, i bambini sono innocenti e crudeli allo stesso tempo e dove sono ancora in agguato, nelle giostre periferiche e sgangherate, il gatto e la volpe collodiani, lo Zampalà felliniano.

In un certo senso il film ci dice che non c’è più un luogo felice e bello, forse che non c’è mai stato, neanche nelle fiabe, e ci dice che proprio la realtà può essere meravigliosa e poetica se vissuta, accettata e trasformata dai protagonisti della vita, da chi assume su di sé le responsabilità (anche del racconto) della conoscenza. Qui, in questo luogo (splendida intuizione quella di servirsi della Tuscia) si è trapiantata la famiglia-comunità da chissà dove, forse da una comune europea “alternativa”. Lui, Wolfgang (il padre delle quattro bambine), è tedesco,  lei, la madre, è italiana, ma qualche volta parlano tra loro in francese. Coco, l’amica che condivide con loro la ricerca di purezza, è tedesca; tutti poi parlano in un tusco-romano divertente e un po’ sgradevole all’orecchio, che restituisce la durezza e la cupezza tipica della maremma tra Toscana e Lazio. Poi ci sono le quattro bambine: Gelsomina, la più grande, è ormai una ragazza di 15 anni; la seconda, morbida e simpatica, è più piccola di pochi anni; poi ci sono le altre due, ancora più piccole e più strillone. Insomma una bella tribù di femmine. Sono apicoltori, fedeli ad ideali di bioagricoltura e a riti comunitari, alternativi, ma con forti richiami alla tradizione contadina dove il lavoro si alterna al gioco e la necessità spinge verso precociresponsabilità. Così Gelsomina è già donna e la sorella si avvia ad esserlo. La madre sembra rappresentare il paradiso perduto, il grembo caldo e accogliente ricolmo d’affetto, il padre si presenta sulla scena nella sua primordiale bestialità: nudo, sporco, con voce cupa e minacciosa. Ed è curioso, pian piano, nel film, estrarre il carattere fondamentalmente mite dell’uomo, che per apparenza ed espressioni sembra un orco, e un po’ lo è.  È  comunque responsabile di un clima di violenza un po’ particolare, attenuata, bilanciata da una pratica femminile della solidarietà, della complicità, della gioia e anche della cattiveria. Il personaggio ricorda un po’ il padre ne Le sorelle Macaluso di Emma Dante, anzi a pensarci bene le analogie sono molteplici. La vita nella piccola comunità si svolge secondo i ritmi dettati dal lavoro, ma in forme più libere, leggere; le pause sono ricche di allegria genuina, i dialoghi sono spontanei e diretti e carichi di emozioni anche quando volti al normale scambio del quotidiano. La relazione tra le sorelle maggiori è improntata a una solidarietà di fondo ma è anche immersa nel conflitto che risiede nella competizione per l’amore del padre, laddove Gelsomina ne reclama il diritto in forza della sua responsabilità e del suo lavoro, che fa valere di continuo, e l’altra per la sua tenerezza, bontà e semplicità.

In un certo senso sono le due parti, maschile e femminile, a venire a confronto, e questo ci fa venire in mente Virginia Woolf, i cui temi e atmosfere (pensiamo soprattutto a Gita al faro), anche se con le dovute differenze, non sono estranee a quelle del film. Non c’è la tv a obnubilare la mente, ma non c’è neanche quello che era stato il primario elemento di stordimento contro il duro, bestiale lavoro nei campi: l’alcool, il vino, che ha scandito le fatiche del mondo contadino, alleviandole, ma che ha anche negato il pensiero e consentito terribili dispotismi, violenze, amori rubati, incesti. C’è invece la radio e soprattutto la musica delle teen ager di Ambra a portare un briciolo di contemporaneità e di voglia di esserci (seppur con lo sguardo  un po’ laterale di chi comunque si è posto fuori dalla banalità e dall’aggressività che proprio prodotti come Non è la Rai hanno alimentato).

In questo mondo chiuso, ma ormai traballante, entrano in scena due fattori che interagiranno tra loro e che lo metteranno di fronte allo specchio del suo divenire: la televisione, ovvero le forze assedianti della “civiltà”, con i suoi riti e i suoi dispositivi di competizione; e l’amore,nella forma disturbante dell’”Altro”, del non omologato, del differente. La tv si presenta sotto forma di telepromozione, un programma a cui Wolfagang, giustamente diffidente, non vuole assolutamente partecipare, e contro le richieste formulate in modo deciso da Gelsomina, che comunque le percepisce come un atto emancipatorio, mette in campo la sua autorità, e forse anche qualcosa di più, il suo amore, forse. L’”Altro” è un giovane ragazzo tedesco disadattato che viene inserito in un programma riabilitativo per evitargli il carcere e quindi mandato presso questa “comunità”. Non parla, fischia molto bene, però, e entra in comunione con il mondo femminile in modo suadente. Allora il gioco, lo scontro, l’incontro, diventa un qualcosa di sottile e ambiguo; i conflitti e i misteri comporranno un evento dai colori violenti e permeato da atmosfere arcaiche. Nel set dell’arena televisiva dove la fata turchina (la Bellucci- perfetta in questo ruolo) svelerài segreti e farà cadere i veli dell’ipocrisia, di fronte ai carabinieri (le guardie collodiane con i baffi e i pennacchi) a far da sfondo a un palcoscenico immutabile, si compie, attraverso il cinema, la magia del reale.

3 Replies to “Le meraviglie di Alice Rohrwacher: la magia del reale”

  1. Condivido pienamente i tuoi punti di vista, geniale il confronto con il padre delle sorelle Macaluso, si ci sono molte similitudini.

  2. sì e anche l’intuizione che vede la meraviglia della fiaba riconfigurarsi nella magia sempre incompiuta del reale…

  3. Caro Enzo, che bella questa tua capacità di confrontarti con il femminile in maniera cosi poco aggressiva, ma comunque maschile, non perdendo quindi la ricchezza della differenza. Un abbraccio.

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