“Io sto da quarantasei anni con la stessa donna, mia moglie. Che sa molte più cose di me di quante ne sappia io stesso. E io so molte più cose di lei di quanto lei stessa sappia di se stessa. E la maggior parte sono negative”.
Avati introduce con velata ilarità Il tema del film (che ilare non è, ma leggero sì), il suo ultimo, ben bilanciato e molto toccante Una sconfinata giovinezza, al cinema Massimo di Torino. Il film parla di due vite vicinissime, quasi simbiotiche, esclusive rispetto a tutte le altre, un uomo (Fabrizio Bentivoglio) e una donna (Francesca Neri, capelli biancastri, “a questa sua terza prova con noi, le sue qualità di interprete matura e consapevole si vanno via via sempre più evidenziando libera com’è dall’obbligo di dover essere perennemente la più bella del reame”) che si ergono a testimonianza l’uno dell’altra. Nel momento in cui uno dei due viene meno quanto a memoria, l’altra si fa suo supporto documentale, una cassetta a nastro preziosissima o un diario fittissimo, materia di ricordo, unico backup al mondo.
In quella casa dove è ambientata la prima adolescenza di Lino (Bentivoglio), dice, “è rimasto tutto il fulgore di quella stagione remota che trascorsi sull’Appennino bolognese, nelle stessa terra dove transitarono gli studenti di Gita scolastica o dove si svolse il pranzo di fidanzamento di Storia di ragazzi e ragazze. Fu in Case Mazzetti, da quegli stessi Leo e Nerio, che appresi il grande mistero del sesso, fu nel garage dello zio Peppino che fu portata la macchina incendiata sulla quale mio padre e mio nonna avevano perso la vita, fu lì che mia zia Amabile (Serena Grandi nel film, ndr), fra quel miliardo di particelle di vetro scintillanti, riuscì nel miracolo di ritrovare il brillante che mio padre aveva al dito; furono quegli stessi bambini di Case Mazzetti che in altre mie storie sfidavano alla corsa gli angeli e che qui sanno resuscitare i morti. È in quella casa che mi fu narrata la storia del prete-donna di La casa dalle finestre che ridono, o del negromante de L’arcano incantatore”.
“Io tutti i film che faccio li faccio soprattutto per tutte quelle donne che mi hanno rifiutato quand’ero ragazzo; «capito che cosa vi siete perse?», penso sempre.” La chiacchierata con Avati ruota tutta attorno ai fatti della sua vita, e non a caso; lo stampo autobiografico, sempre presente nei suoi film, anche questa volta non disattende. Come dire, quando sai che Avati sta girando un nuovo film, è una certezza condivisa e tangibile che ci sta mettendo qualcosa di suo dentro. Forse è per via di quella faccenda del Jazz, così nota, ormai patrimonio italiano. Ma, in modo particolare in questo di film, la marca autobiografica, collante tra passato e presente, è ancora più rilevante nella misura in cui tutto nasce dall’adolescenza: più cresci e più torni ad essere quello che eri, le passioni che avevi, i desideri, “e con quel ragazzino molti di noi, in modo consapevole o no, si trovano a fare i conti, essendo il nostro passato e il nostro presente molto più vicini di quanto si creda. Spesso addirittura contigui. Da un certo momento della nostra esistenza (e non si tratta di qualsivoglia forma degenerativa delle cellule cerebrali) tendono a convivere. Si tratta solo di riuscire a stanarlo (il ragazzino, ndr), nascosto com’è dietro quell’infinità di occultamenti strategici ai quali l’esperienza di vita l’ha costretto a ricorrere, di liberarlo da quel condizionamento mortificante rappresentato dalla ragionevolezza”. Gli inserti di passato e presente coesistono bene (a questo si pensava sull’espressione “ben bilanciato”). La storia di Lino acquisisce qualità e valore proprio perché si entra a fondo nella sua vita, in ciò che lui era da ragazzo. E più ti tira dentro, più ti commuove. Lo spessore glielo dà la sua storia personale, la sua memoria.
“Questa è la prima storia d’amore che io abbia mai narrato”. Ma è una storia d’amore speciale perché è tra una donna e il suo uomo che regredisce allo stato di un bambino. È un amore che fa i conti con il pieno di tenerezza che ne rimane, che travalica i suoi stessi confini, che sviluppa all’estremo una delle parti che esso stesso contiene, ritraendosi al sottoinsieme precedente, quello dell’affetto. Amore per un bambino. Nei film di Avati c’è sempre qualche bambino che ti strappa via il cuore a te spettatore, per l’intelligente nuda verità delle frasi che dice, per il modo di guardarti dritto e legittimo. Affari che riguardano il più intimo, il più vergognoso e pudico e viscerale, a volte infimo, aspetto dell’animo umano senza veli, alla luce del giorno senza ripari. E non te lo scordi più.