“I fiori finti sono meglio perché non muoiono mai e durano per sempre…” Con questa frase, che è una dichiarazione d’intenti sulla vita e in fondo anche sul cinema, il piccolo, fragile Lars, lo psicotico della porta accanto (anzi meglio del garage accanto) nella cittadina-bomboniera della provincia americana, commenta un omaggio ricevuto dalla sua sorridente, deliziosa findanzata. Della quale, a questo punto, già tutto il resto degli abitanti del luogo ha deciso di dimenticare la reale natura: una bambola assemblabile, di quelle che si trovano su Internet e che può essere plasmata a seconda dell’immagine ideale che ogni uomo costruisce della propria donna. E l’affermazione di Lars tradisce e giustifica l’inconscio bisogno della mente e del cuore umani di vincere la precarietà del tempo e la vulnerabilità della dimensione del corpo attraverso la capacità di astrarre, di creare, di inventare e proiettare la vita in una dimensione dov’è possibile escludere la morte, la malattia, il dolore. Ma, cacciata con dolce risolutezza nell’esilio dove scalpitano tutte le paure e le frustrazioni, quella contaminazione tra vita e morte, tra gioia e disperazione, tra pacatezza e violenza si riprende il suo spazio e macchia d’inquietudine la fantasia morbida e omogenea, quindi apparentemente indifferente agli urti, generata dall’immaginazione gentile di Lars. Alla ragazza-tutta-sua, il ragazzo assegna il non casuale nome di Bianca, neutra e pura come la neve tanto ricorrente nel paesaggio e nel tempo della storia, involucro protettivo contro il pericolo del contatto tra i corpi e le emozioni. L’ombra del conflitto e dell’incomunicabilità logorerà la patina di impenetrabile perfezione del rapporto tra Lars e Bianca, fino ad arrivare al punto critico della malattia e della morte. Che sarà una morte reale, con un funerale reale, perché nel frattempo Bianca è diventata una donna vera, rispettata, amata, riconosciuta perfino nella sua unicità, non solo in relazione alla coppia, ma anche rispetto alla piccola comunità in cui è stata trapiantata, insinuando nella percezione distorta del suo fidanzato-creatore la consapevolezza sempre più presente di come nulla sia compiuto e risolto in sè.
Non si impiega molto a comprendere che la relazione con Bianca rappresenti un rito di passaggio per condurre Lars dall’oblio della solitudine e della paura del dolore(l’elaborazione del lutto per una madre morta di parto, per un padre che l’ha tenuto ostaggio della disperazione causata da quel lutto, per un fratello assente), alla sponda più calda e luminosa della vicinanza con gli altri esseri umani, del potenziale di eccitante percolosità che si stabilisce nella stretta tra due mani senza guanti, dell’attrazione che a livello sensoriale ed emotivo spinge a vedere diversamente, a mettere in discussione prospettive, ossessioni, desideri.
In quest’ottica la storia di Lars si presenta come emblematica e significativa di una certa maniera del cinema americano più nascosto e sotterraneo, di una poetica costruita sul microcosmo di umanità marginali, vulnerabili, sospese tra l’incanto del sogno e la brutalità dei risvegli. Finché dura la finzione, dura anche l’esistenza di Bianca e dunque del cinema stesso, ed essendo ciò che è finto eterno, in quanto continuamente rigenerabile dal processo immaginifico della mente, la sopravvivenza del linguaggio cinematografico è indissolubilmente legata alla capacità di continuare a vedere e a immaginare sulla realtà. L’istanza narrante ultima di Lars non è dunque la regia soffusa di Craig Gillespie o la scrittura sfumata della sceneggiatrice Nancy Oliver ma lo sguardo di Lars, gli andirivieni tra i lampi di amara coscienza e di orgogliosa autosuggestione che oscillano dentro gli occhi cristallini di Ryan Goslin, il cui corpo appesantito si pone spesso in una posizione indecifrabile fra l’interno e l’esterno dell’inquadratura, fra ciò che è tangibile, concreto, corruttibile e l’idealismo rassicurante e segreto di una voce interiore soffocata, seppur vibrante, in uno scatto nervoso o in una smorfia contratta del viso. Nello scarto tra dentro e fuori, in una sorta di fessura sempre più profonda, al fianco di Lars è facile riconoscere i contro-protagonisti di altre realtà mentali, e di mondi paralleli la cui penetrazione non garantisce l’incolumità, ma aumenta la capacità di vedere oltre i limiti della pecezione e del sentire comuni.
Il viaggio all’interno dei ricordi perduti di JoelJim Carrey in Eternal Sunshine of the spotless mind, la commistione tra memoria e sogno, la corsa disperata contro il tempo e l’abbandono appartengono alla stessa matrice psicologica ed emotiva da cui nasce Bianca, il tentativo di rispondere con la meraviglia dello stupore al lento spegnersi della grigia quotidianità oppure un atto di ribellione, di libertà, di anarchia contro chi vorrebbe contenere e reprimere l’inquietudine e il disagio in un contesto svuotato, asettico, divorando le immagini, invece che nutrirne la liberatoria forza vitale. Le immagini assumono il valore assoluto dell’affermazione di sè stessi nella radicalità della scelta del proprio mondo interiore e, tra quelle che maggiormente sono rimaste nell’archivio della memoria cinefila, spicca come una fiamma la Lee/Maggie Gyllenhaal di Secretary, inchiodata alla scrivania del suo ufficio contro ogni ragione e ogni buon senso, in attesa che il suo capoamante le dia il permesso di staccarsi in una versione portata alle ultime conseguenze del rapporto sadomasochistico. Quel soffermarsi sulle mani, i polsi, il volto cartoonesco della Gyllenhaal da parte del regista Steven Shainberg indicava un atto di generosità e di amore, oltre che di rispetto per un personaggio il cui comportamento incomprensibile, inaccettabile, bizzarro (e quanti più termini sia in grado di trovare la piccola comunità contro cui sembra rivolto), si impone con una volontà di comunicazione e di affermazione di se stessi che, in un certo senso, rovescia la prospettiva.
Lars, Joel, Lee, la Enid di Ghost World (che si rifiuta di vivere dentro l’attualità del tempo proiettando la sua inquieta adolescenza in un immaginario tra il punk e il b-movie degli anni ’60) ma anche Aviva, la bambina che vuole rimanere incinta nel misconosciuto Palindromes di Todd Solondz, sembrano essere gli unici che sanno quello che è giusto fare per loro, che sono in grado di ascoltare la loro voce e di seguire i percorsi del loro immaginariodesiderio, che accettano il rischio di perdersi per andare fino in fondo e che, alla fine, come accade a Lars, hanno la possibilità di ritrovarsi. Se si vuole tracciare una comunione spirituale tra i film di questo cinema che scandaglia l’inadeguatezza dell’anima e l’intolleranza al conformismo è subito palese la necessità a livello narrativo della presenza di un “controcanto” alla voce solista del protagonista che, quando non è esplicitato il contesto sociale, si identifica in un personaggio parallelo, spe
culare e opposto, lo specchio del senso rovesciato. Così sono il fratello afflitto dai sensi di colpa di Lars, la famiglia che vorrebbe “normalizzare” Lee, l’amica di Enid che vuole vivere nel presente ed emanciparsi, la madre iperprotettiva e iperoppressiva di Aviva e, nel caso del Joel di Eternal Sunshine, addirittura una macchina che cancella i ricordi, la nemesi definitiva del sogno.
Alle prese con un intersecarsi di visioni così fitto, il cinema ritrova la sua natura di sguardo per vocazione naturale, appiana il conflitto tra interiorità ed esteriorità o lo fa esplodere senza soluzione di continuità (basti pensare al personaggio di Aviva in Palindromes interpretato da un serie di attori e di attrici di tutte le età) e cerca, ora con tenace disperazione, ora con l’inebriante sensazione dell’abbandono, di dare una forma materiale, fisica, concreta all’intangibilità della distinzione tra ciò che è reale e ciò che è mentale. Prima che la neve si sciolga.
negoziazione, questo credo faccia e abbia fatto il cinema dalla sua nascita ad oggi. ha negoziato all’interno della costruzione (prevalentemente)narrativa istanze tra loro in apparente contraddizione o assolutamente impossibili da conciliare se non nella forma film.
Piccoli grandi film americani come questo e gli altri che hai citato (e come non pensare a quello splendido manifesto di resistenza naif che é Me and You and Everyone We Know di Miranda July) propongono una visione del mondo dal punto di vista dei marginali e dei sognatori, incapaci di arrendersi a uno spento disincantato buon senso. Un ostinazione al non conformarsi che è intimamente politica e da cui il cinema italiano avrebbe tanto da imparare ma da cui è anni luce distante.