di Alessia Brandoni/ Isabelle è una bella donna, affermata ma curiosa, intorno ai cinquant’anni (perdonateci l’incipit da Donna moderna), fa l’artista, la madre, ma soprattutto, sembra dirci la regista Claire Denis, è una persona che ancora ricerca la felicità attraverso l’incontro amoroso con l’altro. Anche se come in ogni mélo che si rispetti la realtà –fattuale o immaginata in un film di due ore poco importa- ci si mette di mezzo. O forse un poco importa, perché come nella migliore tradizione del cinema francese moderno, quella che in effetti vediamo è una dichiarazione d’amore, e di fede, al potere della parola. Oltre la perdita reale, o volendo la mancanza fittizia. Ovvero, se mélo deve comunque essere, -stiamo parlando d’amore-, che almeno ne esca fuori rivitalizzato.
Incollata al corpo luminoso e irriducibile di Isabelle/Juliette Binoche, Denis sembra guardare oltre i confini di una identità strutturata e fissa –paradigma di un genere, quest’ultima, tanto quanto di una nazione. Le ambiguità e contraddizioni di Isabelle, allora, così come messe in scena, stanno dunque a testimoniare l’esito di una ricerca autoriale fatta principalmente di movimento, estensione, dialogo e relazione, e tanto nella costruzione delle storie quanto nell’uso della grammatica del cinema.
In questo senso non risulta incoerente come al dialogo mai interrotto tra i protagonisti –insieme vitale e ossessivo- spunti a un certo punto, in controcampo, la strana sensazione di un non incontro, o di più di un costante incontro mancato. Una mancanza che di volta in volta viene colmata da idealizzazioni (quelle di Isabelle, di alcuni artisti), usi brutali del dominio (il banchiere), giochi sull’orlo dell’inverosimile (il medium interpretato con rinnovata grazia da Depardieu, che tra le righe della sua intermediazione finisce per porre anche se stesso quale possibile nuovo incontro del “soleil intérieur” –globo vero o falso poco importa- di Isabelle). Ma ecco che quando sembra infine prevalere l’immaginario dei personaggi, e dunque il non incontro, la regista, con uno scarto, sceglie di accentuare il suo sguardo, mettendolo in relazione a partire da un dato anzitutto materiale, ovvero l’attrice che ha di fronte. L’unico incontro reale, infatti, sembra quello tra lei e Juliette Binoche nel farsi del film. Ciò suggerendo una messa in campo –e in discussione- estetica e radicale dello sguardo: che è sia compreso, e dunque anche compromesso, sia desiderante, e quindi non privo di possibili intenti manipolatori. Ma Isabelle/Binoche -l’altro che però, lo diciamo subito, non funziona da polo complementare- attrae e poi fugge questa ‘cattura’, confondendo, si direbbe, lo spettatore ma prima ancora la regista. L’occhio della regia qui non uccide, come nel miglior cinema sadico-mancante in cui tutto viene catturato dal soggetto-mdp, piuttosto si perde –e perdersi può essere meraviglioso, come ricorda candidamente David Lynch (e perché, a questo punto, non rileggere Velluto blu anche in questa chiave destrutturata dal senso di colpa? Ma forse lo ha già fatto, a suo tempo, David Foster Wallace –che di ciò che resta di inadeguatezza e colpa ai tempi della post-storia ha sviscerato anche i puntini di sospensione rimasti orfani- in un suo stupendo saggio incluso, a dire a memoria, in Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più).
Quello che sembrerebbe confermare l’asse del discorso cinematografico di Denis (tra gli altri, ricordiamo Chocolat, US Go Home, Nénette e Boni, Beau Travail, L’intrus) come un discorso sul confine e sull’identità, lei figlia di un funzionario del governo francese nelle colonie africane dove ha vissuto fino all’adolescenza, è il modo di raccontare gli incontri di Isabelle, ovvero l’intreccio, il discorso, che la regista costruisce a partire dallo stereotipo dominante (il bancario potente, l’attore narcisista, il critico d’arte distaccato, l’outsider passionale ma anche la donna artista insieme volubile, assoluta e capricciosa, lacrime incluse). Partire dai ruoli sociali e dall’ovvio, dall’abitudine, per spostarne dunque i confini: tramite la reiterazione delle occasioni (gli incontri e la parola, che infatti rimangono nell’aria oltre la singola scena) e per via della messa in scena non convenzionale (i piani sequenza che sembrano seguire il flusso del dialogo tra i due di volta in volta coinvolti più che un copione scritto prima). In questo modo, agendo sui discorsi e sui rapporti di forza tra i personaggi (mettendo in scena le loro posizioni ed esemplare, in questo senso, è l’incipit del film), Denis destruttura e ricrea quel confine che, diversamente, continuerebbe ad avvalorare il discorso identitario del potere.
Isabelle, se si fa caso, è sempre vestita allo stesso modo, quasi un’icona, ogni volta insegue un incontro e un desiderio diverso ma al dunque ogni volta, anche lei, sembra distruggere almeno un po’ la differenza della persona che incontra. Eppure alla fine sfugge sempre alla trappola. E ricomincia a incontrare e a raccontare. A piangere, spesso, ma a uscire fuori e gioire, di più. E ogni tanto anche a urlare, -desiderio e politica-, come quando, in gita in campagna, ai critici d’arte e artisti che contemplano il paesaggio autunnale con giusto e padronale distacco, inveisce mimando (sia chiaro) una crisi isterica: “è vostro!”, “anche questo è tutto vostro! certo!”. In questa ironia, si può pensare, includendo anche secoli di moniti e prescrizioni ideati da profeti, sacerdoti e filosofi su come, quando e perché la donna deve fare l’amore, e poi parlare decorosamente, o non parlare affatto, comunque obbedire al ruolo costruito da altri al fine di imporre un tipo per niente naturale di ordine.
Se sguardo , situato e femminista, può rintracciarsi in questo film –lente non unica, s’intende- è allora, appunto, quello di un soggetto colto nel suo fare e disfare ma soprattutto quello di una donna che ogni volta si ricrea a partire dal desiderio, che vuole anche dire dipendenza del soggetto, nella sua costante trasformazione, dalla rete delle relazioni (che è sempre, appunto, implicata nel desiderio) –e sia quando c’è incontro sia quando a prevalere è l’io che immagina e riflette sull’altro. Una persona che desiderando ama, pensa, parla, agisce, crea –sentipensando, inventa Eduardo Galeano a proposito delle relazioni con gli altri e il mondo.
Juliette Binoche, difficile negarlo, è una mattatrice liberissima, sempre più brava nel mettersi al servizio (ma ‘mattandoli’, appunto) di registe e registi che tramite un marcato uso della performance attoriale riflettono sia sul rapporto tra verità e finzione che su quello tra relazione e manipolazione; con l’intento, tutt’altro che tradizionale o moralizzante, e di fare una critica strutturale all’ipocrisia con cui sono costruiti i rapporti sociali, e di aumentare la realtà con il gioco e la performance –trasformando, cioè, ciò che è bloccato e facendo coesistere su un piano cosciente e creativo, al meglio intensivo, realtà e finzione. Pensiamo alle sue ultime interpretazioni in Copia Conforme, di Abbas Kiarostami, e in Sils Maria, di Olivier Assayas.
Un dialogo sembra rivolto anche verso il canone che precede e forma Claire Denis, ovvero la nouvelle vague di Truffaut, Rohmer, Rivette e Godard, laddove, però, diremmo nella dialettica con la vita, Denis prende partito per il desiderio che trasforma e reinventa –e Nanà non muore.
Curioso, infine, il paragone con certe storie in uscita più o meno parallela a Un beau soleil intérieur che hanno al centro la storia di una donna –Tonya e Molly’s Game rispettivamente dei registi Craig Gillespie e Aaron Sorkin. Storie di violenza, malinconia, voglia muscolare di riscatto e rovinosa caduta a ripetere –le protagoniste si mandano cinicamente al macello salvo, ma dài, ricanonizzarle nella immarcescibile coazione alla maternità. Si sta un poco esagerando, meglio dirlo, ma solo un poco.
Chissà se in questa chiave (ripetiamo una tra le possibili ma è anche la molteplicità dei piani del film a darci il benestare sul tentare di dire), nella visione di Denis, che nei suoi precedenti film ha indagato la storia recente anche per via di alcune riflessioni espresse dal pensiero post-coloniale, Isabelle potrà infine trovare un modo comune per incamminarsi, a partire da un negativo rimosso dal vincitore e interiorizzato da chi lo ha subito, lungo lo spazio e il tempo immaginato e ricreato nella Comédia infantil da Henning Mankell -la cui locandina, non a caso, appare sul muro fuori il bistrot parigino dove Isabelle sta chiacchierando con qualcuno-, in cui Nelio, bambino africano in fuga da un paese in guerra, racconta per nove giorni la sua storia, perché, ferito da un colpo d’arma da fuoco, sa che morirà non appena il racconto sarà finito.
P.S. Questa breve riflessione è frutto di un dialogo, che si rinnova ad ogni incontro.
Alessia mi stupisco di tutte queste cose che hai visto/trovato in un film che io ho invece percepito come inutile e frustrante…
L’immensità della Binoche per me piegata alla macchietta di donna in delirio da menopausa, infiniti spunti interessanti che la storia offriva abortiti in una superficialità desolante, una rappresentazione borghese priva di analisi e/o denuncia, infarcita di cliché e pietosamente autoreferenziale (pure l’inquadratura da cartolina con la Tour Eiffel ci siamo dovuti sorbire!).
L’unica vera imperdonabile mancanza d’incontro che io ho rilevato è stata quella con lo spessore di un personaggio che aveva tantissime cose da dire e che è stato delittuosamente lasciato languire in un rovello di discorsi e situazioni che mai ne illuminavano la profondità.
Curioso che quello che tu chiami “critico d’arte distaccato” a me sia apparso il personaggio più caldo, profondo e credibile di tutto il teatrino stancamente allestito da una Denis per me irriconoscibile.
Ma la bellezza del cinema (e dell’arte) è proprio quella di sollecitare e svelare la nostra soggettiva interiorità portandola al dialogo e alla relazione con l’altro da sè, lasciando spazio alla diversità.
Grazie dunque per la condivisione.
Cecilia
Ciao, grazie del commento, non so se tanto in condivisione e in dialogo perché la mia riflessione è partita anzitutto dalla forma, dalla messa in scena, più che da un’osservazione sullo sviluppo narrativo. Non mi è sembrato molto un film cui applicare una critica, diciamo così, ‘contenutistica’, piuttosto un film da analizzare tra le righe -nelle posizioni dei personaggi e nei movimenti della mdp (riduttivo per me farne un occhio pittoresco). Se devo dire del racconto, mi pare Denis giochi sugli stereotipi tutt’altro che riaffermarne la verità mediocre (che nel caso, ma per non lo è, sarebbe sì operazione un po’ borghese), e forse giochi
anche con i grandi ‘tipi’ della letteratura -Isabelle potrebbe anche essere una novella Bovary che tuttavia, finalmente, non muore tra atroci strazi punita per il suo desiderio di felicità?
Il critico d’arte a cui mi riferivo non è il tizio che incontra alla fine, anche per me una figura abbastanza positiva, e proprio nel suo realismo, ma uno di quelli della gita in campagna (dove mi pareva ci fossero artisti, curatori e critici, insomma un po’ tutto il mondo dell’arte -che guarda il mondo e giudica con pregiudizi ‘vecchi’: questa mi è parsa, lì come in altri punti, la critica).
Comunque, se ti va, puoi mandarci una riflessione più lunga, e nei punti critici che sollevi più argomentata, e magari proviamo a pubblicarla -dare spazio a opinioni anche opposte è una delle cifre di “schermaglie”.
Preferisco dialogare – comunque pubblicamente – con te che fare una critica a se stante di un film che non mi ha lasciato niente se non dell’amaro in bocca, anche perché è passato troppo tempo da quando l’ho visto ed è scivolato rapidamente via sulla superficie della mia epidermide.
Per quanto riguarda la forma, chiarisco subito che per me deve necessariamente essere espressione del contenuto, ossia non concepisco una dimensione formale che non sia vincolata e vincolante rispetto al contenuto che si vuole esprimere, per me sono due aspetti imprescindibilmente legati, un po’ come corpo e mente.
Certo, quando si parla di film, io dó molto rilievo alla narrazione, ma che non può non essere veicolata e sostenuta dalla modalità di rappresentazione; comunque formalmente/tecnicamente nè la messa in scena, la regia o la mdp mi hanno portato da nessuna parte, non mi hanno mostrato nuovi orizzonti, nè mi hanno ispirato, scosso, svegliato o sollecitato in alcuna direzione.
Per me un film “funziona” e ha un valore se mi prende di pancia e/o di testa (nel bene e nel male, ossia non deve per forza “piacermi”, ma deve stimolare in me una qualche perturbazione, a livello di sentimento, o di riflessione, o quantomeno agitare un dubbio…) e a livello razionale non sono in grado di cogliere riferimenti o citazioni colte se non c’è una sostanza che li sostiene, perché sono abbastanza allergica agli intellettualismi autoreferenziali e fini a se stessi.
In questo caso infatti non ne trovo (addirittura Flaubert! suvvía…diciamo che magari le sarebbe piaciuto, ma non c’è riuscita).
Non credo si sia “giocato sugli stereotipi”, mi pare piuttosto che siano stati meramente buttati lì, con un pallido, inconsistente e radical-chicchissimo tentativo di poggiare sulla protagonista uno smarcamento dagli stessi che non riesce, facendone anzi proprio di lei la vibrante e triste conferma in un susseguirsi di cliché, in assenza totale di un racconto (narrativo, visivo, o registico) della sua profondità come persona e sensibilità come artista.
L’artista tribolata, nevrotica e un po’ maledetta, che lancia un’unica pennellata in due ore di film nel suo spazioso studio, senza mai entrare in relazione intima/artistica col suo dolore/bisogno/desiderio, senza riflessione, critica, o intimità con se stessa, saltellando unicamente da una relazione all’altra in un’affannosa, scoordinata e unilaterale ricerca di un equilibrio fuori da sè e attraverso l’altro (l’uomo in una dimensione di coppia), per finire addirittura dal medium a farsi dire cosa fare, non mi pare un grande esempio di fuoriuscita dagli stereotipi, nè di libertà, nè di femminismo.
Un tratteggio superficiale e vuoto di un personaggio (e di tutta la storia) che si intuisce abbia delle potenzialità e dello spessore (grazie soprattutto alla forza espressiva e interpretativa di Juliette Binoche) che non riescono a dispiegarsi, regalando anche numerosi momenti di noia.
Sul critico d’arte e tutto il mondo che gira intorno a lui e Isabelle ti dó ragione, ma appunto anche lì Denis si è mangiata l’occasione di fare un bel film (e di dire realmente delle cose, di fare un affondo, di mostrare appieno la contraddittoria luminosità della protagonista), perché in contrapposizione cosa esprime Isabelle, tramite la narrazione, la mdp, la regia, o la messa in scena??!?
Un deludente e irritante nulla.
À bientôt