Questa stagione del cinema americano sembra attraversata da una certa tendenza a declinare il genere un po’ consumato della commedia sentimentale verso un gusto amarognolo, esistenziale, crepuscolare, che spesso si nutre del contrasto tra interiorità particolarmente fragili e sottili e il mondo esterno a volte crudele e aggressivo.
Così, dopo Lars e la ragazza reale, troviamo Dan nella vita reale, titolo originale che è una vera e propria dichiarazione di poetica smentita dai poco coraggiosi titolisti italiani, più indirizzati a sottolineare in maniera semplicistica l’aspetto romantico del racconto. Come per Lars, il presupposto di una scelta di malinconica chiusura in sè stessi – seppur non con la deriva patologica del film con Ryan Goslin – è rintracciabile in un lutto familiare: in questo caso la perdita della moglie per il protagonista Dan Burs, che ha il volto simpatico ma acciaccato da qualche ruga di Steve Carell, in perfetto equilibrio tra il buffonesco e il disincantato e alla prese con la gestione quotidiana di uno stanco lavoro da giornalista e di tre figlie nel pieno della sfrontatezza adolescenziale.
La descrizione introduttiva di questo ambiente intimo, privato, sul quale scorrono i titoli di testa come a indicare questo farsi della vita in contemporanea con il farsi del film nel delineare le linee guida della personalità del protagonista, danno il senso dello stile del registasceneggiatore Peter Hedges che già nell’opera d’esordio, il poco visto ma pregevole Schegge di April, aveva affrontato, da un punto di vista femminile e generazionalmente più giovane (la protagonista era una ventenne), la difficoltà dell’incontro tra l’individuo e la comunità, la tribù o le tribù da cui proviene, esprimendo o cercando di esprimere questa tematica ad un livello anche stilistico e formale, nel mettere in parallelo la vita che vorremmo, come recitava il titolo di un film di Giuseppe Piccioni, con quella che ci troviamo effettivamente davanti quando spalanchiamo la porta di casa la mattina. Hedges scioglie questo nodo battendo il percorso sicuro e non insidioso di una scrittura che arriva sempre prima delle immagini, imbrigliandone un pò la carica lirica ed emotiva, avvertibile solo implicitamente nello spegnersi e nel riaccendersi di qualche tramonto sull’ispirato paesaggio portuale in cui è ambientata gran parte della storia. La vita su cui apre la porta Dan il giorno in cui cominica il film, lo porta a trascorrere un rumoroso e caotico week-end nella casa paterna affollata di sorelle, fratelli, nipoti, la tribù d’origine “allargata”, quella che amiamo di più e, per questo motivo, da cui spesso ci sentiamo più distanti e fraintesi, non capiti. L’imprevisto, ciò che spezza la linea monotona delle dinamiche e delle situazioni, non può che essere rappresentato da un personaggio culturalmente e geograficamente lontano ma spiritualmente affine, capitato, quasi “cascato” per un fato benevolo dentro la storia del personaggio in cerca d’amore. Risulta azzeccata e ricca di rimandi tra vecchio e nuovo continente la scelta di Juliette Binoche che quando è in trasferta americana abbandona le punte dure dei personaggi per diventare più leggera, ai limiti dell’evanescenza.
Il meccanismo che non tradisce lo schema della commedia sentimentale deve mettere comunque il bastone tra le ruote al breve incontro consumato in libreria, dove Dan conquista quella sconosciuta dall’accento diverso, attraverso la passione per la letteratura (un piccolo omaggio a Truffaut nel dare un valore seduttivo, quasi sensuale ai libri?) e ingabbia la forestiera Marie in una relazione piuttosto improbabile con il fratello sempliciotto e bonario di Dan. Ovviamente nessuno crede mai per un momento che Marie/Juliette alla fine non si svincolerà dal rapporto con l’All American Boy per unirsi al fascino buffo del giornalista vedovo (con prole a carico, però…). Ed è quello che sostanzialmente Hedges chiede ai suoi spettatori, di non aspettarsi che la storia prenderà qualche svolta inaspettata, ma di godersi la corposità di un racconto arricchito di annotazioni di costume sullo stile di vita di queste tradizionali e un pò asfissianti super-famiglie americane, cogliendo quel brivido di cocciuta vitalità che porta Dan a emanciparsi dal clichè del vedovo inconsolabile per concedersi il diritto di essere felice.
La felicità a cui tende contraddice il tono malinconicamente caldo, sottolineato dalla predominananza degli arancioni e dei gialli nei colori della fotografia, su cui sembrava dovesse srotolarsi la vita annunciata da una musica in sordina e offre la svolta, il bivio che dà l’idea che qualcosa è cambiato e che tutto può succedere.
Peccato che poi tutto è già successo, almeno al cinema.