Il giovane Ciro, insieme ad altri amici dei “quartieri”, partecipa a uno stupro di gruppo la cui vittima è Irene, adolescente borghese. Dopo una notte insonne, il ragazzo decide di denunciare il fatto accettando di passare i futuri quattro anni della propria vita in carcere. Lì, nella notte che non finisce mai, inizia a scrivere delle lettere ad Irene, cercando attraverso la scrittura di dare una forma comprensibile a quello che lo fa star male e che non riesce a controllare con il pensiero (sintomatici il ticchettare continuo della mano, quasi uno scavo nella mente, e l‘insonnia). Cerca anche un rapporto profondo con la ragazza, più che l’oblio dato dal perdono, poiché oramai sente che Irene è diventata una parte necessaria, e molto profonda, della propria realtà. Significativo a questo proposito è ciò che il ragazzo legge sulla lavagna della scuola del carcere: “ciò che davvero esiste, esiste per assoluta necessità”. Ciro scrive poesie e lavora la creta, si elettrizza per una batteria scoperta dietro un uscio di una porta socchiusa e sbotta contro gli assistenti sociali chiedendogli perché queste cose, queste possibilità, non gliele hanno date quando erano liberi. Don Luigi Merola e Valerio Perrella partecipano a un incontro dentro il carcere, parlando di memoria e responsabilità individuale (“morire per cambiare? no, cambiare per non morire”, sono le parole con cui incita i ragazzi a vivere pienamente agendo anzitutto su loro stessi, prima di cercare le colpe altrove). La memoria privata, quella che Irene ha rinchiuso dentro il negativo mai più sviluppato di quella violenza, e quella collettiva, costituita dalle testimonianze di uomini che si battono contro l’omertà, si rincorrono nella comune ricerca di luce. Così che la scelta del regista di dar presenza nel film di persone della società civile, conferisce grana documentaria ad alcuni fotogrammi sporcando l’illusione immedesimativa dello spettatore di un’epifania di scomoda realtà. In questo senso anche la matericità grezza di Valeria Golino (senza un filo di trucco), psicologa del carcere, offre un piccolo esemplare detour.
Irene vomita, tossisce e non riesce più a fare l’amore con il proprio ragazzo. Rifugge lo specchio e cerca attraverso il teatro di trovare una possibilità d’espressione più profonda di quella offerta dalla concretezza e dalla sicurezza della quotidianità, qualcosa che la possa rappresentare per quello che è ora. Cominciano a starle strette le mura di casa e forse anche la protezione del proprio ragazzo. Una sera finge di non vederlo all’uscita della lezione di teatro, così che dopo aver accettato il caffè e la conversazione del proprio maestro di corso (un Fabrizio Gifuni in parte) si ritrova a scivolare attraverso la forza di un temporale dentro il centro pulsante, materico e oscuro di Napoli, trovandovi provvisoria catarsi. Il centro della città come l’uscio aperto sembrano le porte d’ingresso in cui “entrare” per poter vivere pienamente. Così come per noi spettatori le immagini anticonformiste (non televisive) di Capuano sono l’accessibile (perchè libero) varco per lo spettacolo della vita. Accessibile ma non immediato, occorre entrare per esperire, non concedendo, il regista, le scorciatoie emozionali del cinema spettacolare tutto preso a far mostra di sé.
Ecco allora che a tendere il collo si scopre che Irene nella testa ha una fame speciale (di ricordare, di capire) che “gira come un avvoltoio”. Che la vita fatta di “sanissime” cose concrete non le basta. Vita psichica e espressione artistica cominciano a nutrirla (i diari della Duras sulla memoria), così come la marginalità di vite e situazioni diverse dalla bolla borghese da cui finora ha attinto le proprie esperienze. Tornata a casa ricompone le lettere di Ciro fatte precedentemente a pezzi (la destrutturazione operata dalla memoria per costruire nuovo senso) e gli scrive.
Alcuni amici napoletani mi fanno notare come in questo film (come anche nel precedente La guerra di Mario) i personaggi siano poco verosimili, poco reali, e che la realtà di quei posti, attraversati da differenze che non si incontrano se non nella violenza, è più drammatica e la via d‘uscita meno facile. Credo sia vero. Ma penso anche che le storie messe in scena da Capuano abbiano, in parte, come punto di riferimento il mito, così che la storia raccontata si inserisce quasi sempre in una più grande che la precede e che non ha una vera fine. Capuano, insomma, mette su uno stesso spazio di visione realtà e astrazione, realismo e idealismo, la visione bassa e quella artistica, la spinta dialettica e quella verso l’universale (la “necessità assoluta“?).
E allora finisce che la disponibilità al dialogo e l’apertura, che sono pure i fondamenti della democrazia, diventano le parole del rap cantato da Ciro, un rap nato da esperienze reali che inciampa e stona e brilla di luce propria come tutti i tentativi. Fluttuano, oltre i titoli di coda, momenti abbaglianti, come gli occhi del protagonista aperti stupiti sull’altro da sé e il sorriso intelligente, senza fine, di Corso Salani.