Simpathy for Mr. Vengeance era una requisitoria shock sulla riduzione dell’uomo ad oggettualità merceologica nell’attuale giostra della globalizzazione liberista. Old Boy uno stilizzato mélo sulla natura geometrica del male. Simpathy for Lady Vengeance, somma algebrica dei due, un trattato risolto in forme spavaldamente post- pop sulle prospettive dell’autorialità contemporanea.
Una certa tendenza autoriflessiva a quanto pare serpeggia diffusa a Oriente, almeno a giudicare dalle ultime prove di Wong Kar-wai (2046), Hou Hsiao-hsien (Three Times), Mohsen Makhmalbaf (Sex and Philosophy), tutte in qualche modo tese alla Summa, alla contemplazione della propria Arte (specchio del proprio ego, al fondo). Con risultati i più vari, dal sublime (Wong), all’ambiguo (Hou), al fascinoso-ridicolo (Makhmalbaf).
Park, dal canto suo, non fa che spingere alle estreme conseguenze il suo gusto per il delirio grafico, immergendo la parabola di colpa ed espiazione dell’eroina Lee Geum-ja in una soluzione di segni e simboli mantenuta costantemente al limite della saturazione. Già: la scelta musicale rivelatrice, stavolta, non è il solito etereo Vivaldi a sacralizzare le violenze assortite, ma il 24° capriccio, tema con variazioni, che rappresenta l’acme del virtuosismo tecnico di Paganini. Lo spunto tematico (la declinazione femminile della vendetta, il suo straniante disporsi sullo sfondo di una società sempre più compresa nella sua follia senza scampo) sembra qui proprio un pretesto atto a scatenare una frenesia inventiva tanto ammirevole quanto al fondo irritante.
Il peccato è presto detto: ipertrofia di consapevolezza. Non mortale, no, ma neanche lieve, soprattutto se si espande a tutto il range espressivo: fabula (l’angelo della morte e l’orco cattivo incontrano Assassinio sull’Orient Express), struttura a incastri temporali (con le specularità ferree dei film precedenti che iperfetano sistemicamente fino a configurazioni al minimo icosaedriche), stratificazione audiovisiva, trionfo del design. Per questo, nonostante l’abisso che li separa e oltre l’epidermica comunanza contenutistica, viene in mente l’opzione enciclopedica del Tarantino di Kill Bill. Solo che laddove quello trova dolce naufragare nel suo mare cinefilo, questo tende a una sua combustione estetica interna. “Tutto dovrebbe essere più bello”, dice infatti Geum-ja, prima che il suo sorriso marchi un finale coraggioso e imperscrutabile come il futuro registico di Park.