Perchè sì |
Perchè no |
---|---|
di Alessia Brandoni La vita di Adèle, premiato all’ultimo Festival di Cannes e che, dopo un primo entusiasmo, ha iniziato a raccogliere critiche sia sul fronte degli ideologici dell’ultima ora che all’interno di una parte del femminismo, a parere di chi scrive riguarda anzitutto il rapporto tra cinema, corpo e pensiero. E per parlarne meglio mi appellerò ai paradossi di Deleuze perché parole più povere, almeno in questo caso, potrebbero banalizzare o creare malintesi. «Datemi dunque un corpo», scriveva il filosofo francese, che è ciò in cui il pensiero «affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita (…). Non che il corpo pensi, ma, ostinato, testardo, forza a pensare, e forza a pensare ciò che si sottrae al pensiero, la vita. Non si farà più comparire la vita davanti alle grandi categorie del pensiero, si getterà il pensiero nelle categorie della vita. E queste sono appunto gli atteggiamenti del corpo, le sue posture. Non abbiamo neppure idea di quel che può un corpo nel suo sonno, nella sua ebbrezza, nei suoi sforzi e nelle sue resistenze». Nella categoria dell’«immagine-corpo», il corpo/personaggio di Adèle (di)mostra un coraggio impensato; l’assoluto del suo amore la spinge verso l’Altro/Emma – il film parla dell’amore passionale tra due ragazze divise dall’età, dall’estrazione sociale, dalla cultura – e, attraverso questa forza dirompente, verso il cambiamento che un amore passionale sempre genera (e contraddittoriamente, vista la tendenza conservatrice e regressiva dei fantasmi che nell’amore passionale sempre agiscono). In questo senso l’immagine finale, oltre all’eloquente divisione in capitoli indicata nel titolo, sembra confermare, sebbene su un piano più narrativo, la visione che vuole Adèle in continua trasformazione. È sempre lei quella che cerca costantemente lo sguardo di Emma: quando attende con desiderio di baciare la sua bocca, quando la bacia per la prima volta, quando fanno ripetutamente l’amore, quando Emma prima la rifiuta e poi la schiaffeggia, quando sfinita crolla a terra. Adèle cerca l’altro; non l’uguale a sé, non l’ideale del sé. Vede tutto quanto attraverso il suo sguardo colmo di desiderio e di amore – in questo senso potremmo dire che il film, o almeno la sua angolatura, la sua temperatura, è quella di una lunga soggettiva su come lei vede e sente il mondo dopo questo incontro; la sua è una scelta del corpo desiderante più che una scelta razionale o spirituale. Ed è sempre il suo corpo che ci parla inoltre delle esclusioni che il suo amore subisce e delle ambivalenze autoescludenti che la sua assolutezza determina. Da una parte, e ciò ha anche un segno politico forte, Adèle è l’«escluso» (per classe sociale, canoni dominanti, cultura) e lo è infatti proprio a partire dal proprio corpo, che porta l’impronta della «diversità» (un pugno agli intellettualismi e alle frigidità borghesi). Dall’altra, e con il procedere del film ciò diventa sempre più evidente, lei attraversa tutto senza riuscire a dare a questo tutto nomi più precisi, senza che riesca a decifrare quello che le succede intorno con ciò che chiamiamo principio di realtà. Ma la sua traiettoria ha una forza straordinaria, una concentrazione e una densità rispetto allo stare nel mondo cui poter attribuire la caratteristica dell’autenticità. È autentica proprio perché rifugge dalle addomesticazioni: il suo corpo eccede la sovrastruttura che lo condiziona e ci investe di un’energia vitale cui è difficile (e forse anche stupido) resistere. Il corpo di Emma invece esprime altro. È un corpo che appare e poi scompare fin dalla prima apparizione (nella discoteca); che respinge il cibo a meno che non lo simbolizzi (le ostriche); che rifiuta Adèle quando si accorge della differenza; che rifiuta, soprattutto, di farsi divorare dall’amore di Adèle, ciò anche significando della sua impossibilità di affidarsi completamente all’altro (la metafora del cibo in questo caso è pregnante, Emma ha una personalità tendente al controllo). Il suo corpo, dunque, esprime una maggiore sottomissione ai condizionamenti, una tendenza alla conservazione (e conservazione nel senso riservato ai privilegi propri della sua classe). Il corpo di Emma contiene e anzi accresce col tempo anche l’impronta dell’indecidibilità, che è poi tipica di chi ha una coscienza meno legata al corpo e più alla mente. Emma seduce e poi svicola, il suo è per lo più un corpo scisso e in fuga dal suo desiderio. Un corpo che si nasconde dietro il cavalletto e l’idealizzazione della pittura (e l’idealizzazione di Adèle, che ritrae ossessivamente e a cui mette in bocca una sigaretta come fosse una star del cinema). Così che dopo aver cancellato i suoi capelli blu ed esserseli acconciati come quelli della propria madre, Emma approderà tra le braccia del surrogato materno (Lise), a lei necessario per poter trovare la forza di vivere e di esporre («Ci sono due bambine in casa», dirà parlando di sé e della figlia della sua nuova compagna). In tal modo il «fascino discreto della borghesia», che consente a chi ha paura di proteggersi senza far vacillare le proprie sicurezze, ricompone nella famiglia rassicurante e tiepida il proprio dominio. Anche se le contraddizioni e le passioni che si agitano nei fondali degli ultimi quadri blu lasciano presagire che il conflitto, in lei, non sia affatto risolto. Gli atteggiamenti e le posture dei corpi delle due ragazze, quindi, sono gli elementi predominanti della messa in scena scelta da Kechiche; elementi che però, come sempre nel cinema che si affida ai corpi, presuppongono la presenza di qualcuno che li veda, perché il cinema dei corpi è essenzialmente un cinema fatto per essere guardato. E qui arriviamo al nodo problematico contro cui si sono scagliati, almeno a parere di chi scrive, purismi e ambigui moralismi. Occorre anzitutto mettere in evidenza come, prima della lunga scena di sesso, le due protagoniste vadano a vedere dei dipinti in cui compaiono dei corpi di donna nudi (evidente nesso simbolico riguardo allo sguardo dell’artista/Kechiche) e poi come anche dopo, nella scena della festa, il critico d’arte affermi la propria impotenza, curiosità e rabbia nel non poter partecipare dell’orgasmo femminile (ed Emma, di contro, con tono beffardo: «Ah, la mistica dell’orgasmo femminile!»), entrambi probabili segni che stanno a testimoniare della debolezza rispetto al rimanere esclusi da ciò che accade dentro una donna. Adèle viene esclusa dalla classe sociale più alta, Kechiche probabilmente si è sentito escluso dalla Parigi che conta, l’uomo si sente escluso dal modo di essere al mondo e dalla intimità di una donna – quest’ultimo elemento assumendo senso se soprattutto lo si rapporta alla tendenza maschile (tendenza culturale, ovviamente) alla manipolazione e al controllo. Rispetto, dunque, all’accusa rivolta a Kechiche di aver operato una messa in scena grondante gratuita violenza manipolatoria e pruriginoso sguardo invadente – da «escluso» – trovo in definitiva che non sia un’accusa giusta, o comunque che sia una questione mal posta. Prima di tutto perché il regista ci dichiara in anticipo il suo ruolo di demiurgo (colui che crea e controlla la messa in scena) e voyeur (certo, se poi uno non vuol vedere è un altro paio di maniche), e di ciò potendosene rinvenire le tracce anche in quasi tutte le citazioni letterarie e filosofiche disseminate nel film; in secondo luogo, ma non per importanza, perché Kechiche nel suo film rispecchia con onestà un desiderio/ossessione rispetto al problema della rappresentazione dell’artista/manipolatore/demiurgo che allo stesso tempo è anche un desiderio/ossessione ancora molto presente nella dinamica delle relazioni. Così che, confessandoci questa sua ossessione (che è evidentemente anche un problema sociale e culturale), Kechiche finisce anche per farci una confidenza preziosa su alcuni aspetti problematici del «maschile». D’altronde, essendo un film su una visione desiderante, esso non può che esprimere anche lo sguardo desiderante del regista, che di conseguenza non sarà e non potrà mai essere uno sguardo neutro; e non lo sarà, altresì, perché esso per forza di cose si relazionerà all’interno di un contesto (e non solo maschile/femminile) in cui agiscono (ancora) dei rapporti di forza e dei fantasmi. Inoltre, anche attraverso i riferimenti metatestuali, Kechiche ci risparmia l’ipocrisia autoindulgente e, questa sì, radical chic, non raccontandoci una storiella edificante né sull’omossessualità (che almeno nei primi rapporti attraversa quasi sempre le solite dinamiche freudiane – volete che i gay salvino e riscattino le altrui miserie? troppo facile) né sul desiderio maschile. E in questo senso è significativo come questo film finisca per trovare più resistenza nello spettatore che nella spettatrice. Evidentemente, o almeno in una qualche misura, da parte dello spettatore c’è un rifiuto (freudiano/autoedificante) a confrontarsi con l’aspetto problematico dello sguardo maschile che Kechiche mette (consapevolmente) in scena. Rispetto, poi, alla critica, sollevata da più parti, che vedrebbe le protagoniste ingabbiate dentro una messa in scena violenta, fissa e mortifera, e diversamente da quello che accadrebbe, ad esempio, se ci trovassimo in un film di Cassavetes (al quale da sempre viene associato Kechiche), chi scrive pensa che anche questa sia a conti fatti una critica mal posta. Cassavetes, infatti, aveva nel suo DNA il vitalismo e la tensione libertaria e individuale che ancora oggi permea la cultura americana, la quale è portatrice di una visione, diciamo così, meno legata alle sovrastrutture e più alla natura umana. La visione europea, basti pensare, tra gli altri, ad autori come Losey, Fassbinder, Pasolini e Haneke, è storicamente molto più radicata dentro l’analisi (culturale, storica, economica e psicologica) dei rapporti di potere che determinano, ingabbiano ed escludono gli individui. La vita di Adèle è inoltre un film notevole anche in quanto consente allo spettatore di identificarsi senza però dover rinunciare a uno sguardo critico: «Mi assomiglia e allo stesso tempo non mi assomiglia», dice Adèle di un ritratto fattole da Emma. In tal modo enunciando il principio del dispositivo verosimiglianza/finzione, dentro/fuori, realistico/simbolico che consente allo spettatore di dare vita a un’identificazione problematica e non consolatoria. Infine, con la sua durata che sfiora le tre ore e la continua messa in scena del «momento qualunque», può dirsi che La vita di Adèle sia anche un film sul «tempo reale», di cui il regista, e con molta generosità, tenta di restituire allo spettatore la percezione. Così che, come il corpo di Adèle finisce per eccedere le condizioni che lo vogliono determinare, così il tempo (specchio del tempo reale), messo liturgicamente in scena da Kechiche, finisce per eccedere quello del racconto, facendosi tempo tout court. |
di Christian Raimo Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista on line minima&moralia, blog culturale di minimum fax minimaetmoralia Quello che riesce a fare la Vita di Adèle è annullare la problematizzazione della questione dell’amore omosessuale. Con l’alibi che oggi l’amore omosessuale non sia un problema, ecco che Kechiche butta con l’acqua della repressione sessuale e del moralismo anche il bambino della politicizzazione delle questioni morali e erotiche. Ci va vedere scene di scopate tra due belle ragazze. A tutti, democraticamente. Se facebook, come dice Zuckerberg, è un diritto dell’umanità, perché youporn no? Ecco che allora non solo l’amore omosessuale non è più un problema, ma nemmeno l’amore in sé lo è. Cosa ci resta da sperare? Pier Paolo Pasolini finiva il suo stranoto documentario-inchiesta Comizi d’amore sull’Italia inibita sessualmente, augurando ai suoi compressi protagonisti di ottenere in futuro non soltanto l’amore, ma anche la consapevolezza di che cosa vuol dire amare, perché “è soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà”. Adèle e Emma hanno l’amore, ma non hanno nessuna coscienza. Non ne parlano, non ne discutono, non è lì che sorge il loro desiderio, né le loro incomprensioni. Sono corpi che si cercano. Imbabolate, ammiccanti, attonite. Integrate, figlie, vittime? dei loro contesti sociali (uno piccolo borghese e conformista, l’altro artistoide e liberal e presuntamente anticonformista), il loro incontro non le cambierà in nulla. Adèle rimarrà una ragazzina naïf, Emma rimarrà una giovane scafata intellettualoide. È un film impetoso? Forse è un film reazionario. È un film sull’immobilismo sociale? Forse è un film che delinea perfettamente l’estetica di questo conformismo sociale. Cos’è che si salva soltanto in tutto la Vita di Adèle? La gioventù. Un unico valore, idolatrato, coccolato, allisciato in ogni inquadratura: da quelle incredibili dei primi piani sulla bocca semi-aperta di Adèle o sul suo culo quando dorme, alle discussioni presuntamente realistiche tra i ragazzini. Il che pone due domande, almeno. Prima, qual è la giustificazione estetica per quelle inquadrature? Quale è la giustificazione estetica di farmi vedere Adèle quando dorme, quando si sporca di sugo, quando ha la fica bagnata? Secondo, confrontate i ragazzini di Kechiche con quelli di Kids di Larry Clark e Harmony Korine o quelli di Elephant di Gus Van Sant o quelli della Classe di Laurent Cantet o di Sweet sixteeen di Ken Loach o quelli di Nella casa di Froançois Ozon o o o… E vedrete come il presunto realismo della Vita di Adèle sia un gioco facile a creare una bassa identificazione nei confronti di un universo giovanile visto dal mondo degli adulti, una specie di modello nostalgico, o ideologico, di come ci ricordiamo o ci immaginiamo la gioventù. Semplicemente: un’età adulta ma ingoffita, ingiovanilita. Quindi senza speranza. La gioventù per Kechiche è un idolo da venerare in un mondo che da adulti non ha nessuna possibilità di redenzione: i genitori descritti come pallide caricature di educatori, progressisti o conservatori che siano. (Ah, tutti sanno cucinare bene: un tema che torna in tutti i film di Kechiche.) Come per Sacro Gra si era gridato al Cambiamento!, anche questo film è stato subito sigillato con la ceralacca del capolavoro. Che cos’è che ha spinto in questo senso? Probabilmente la capacità di Kechiche di padroneggiare tecnicamente le varie tecniche estetiche che riproducono effetti di realismo: dalla sfrontatezza di una Nouvelle Vague all’intensità iperemotiva del new cinema americano alla cafonaggine di un Dogma 95, tutto in Kechiche viene neutralizzato dalla non-scelta di tenere una cinepresa attaccata alla faccia di Adèle, pensando in questo modo di aver risolto il problema principale di un autore: darle un personaggio da interpretare. Cassavetes non faceva così? E Louis Malle? E Bruno Dumont? Adèle è un puro oggetto estetico per gran parte del film, noi spettatori siamo dei voyeur autorizzati. Confrontate La vita di Adèle con il lavoro simile di adesione al personaggio che ha fatto Sebastian Lelio con Gloria (è ora al cinema) attraverso il talento gigantesco di Paulina Garcia. Nessuna inquadratura, anche delle scene di nudo, di sesso anti-estetico, sembra aggressiva né per Gloria né per Paulina Garcia, anzi sembra che sia lei a aggredire noi spettatori inermi di fronte alla forza del personaggio e alla bravura della recitazione. Qui Adèle (personaggio) e Adèle Exarchopoulos (l’inteprete) sono due piccole divinità vuote, che possiamo adorare, spiare, o, se fossimo un po’ meno visivamente consumisti, proteggere. Ma non è solo questo il motivo per cui il film di Kechiche piace. Come ha mostrato Fofi in questa lucidissima recensione, la capacità di questo autore francesce d’adozione forse sta proprio nell’analisi chirurgica, balzachiana, del “nostro tempo, frigido, limitante, modaiolo”. Forse quest’aria che respiriamo per due ore e mezza e stata resa priva d’ossigeno apposta. Rivisto da quest’ottica, La vita di Adèle può sembrare una sottilissima satira su una società francese (leggi pure occidentale) incapace di creare relazioni autentiche e nemmeno sogni di queste relazioni. Ne verrebbe fuori un film sostanzialmente nichilista, intransigente nei confronti del suo pubblico potenziale, un’atto di accusa in fondo, a noi stessi che sembrava blandire. In realtà se questa potrebbe essere una lettura credibile a partire dalle scene delle feste, delle cene, descritti come stanchi riti di una società in declino, stanca di sé, autoparodica; l’impressione opposta si ricava dalle scene di sesso, in cui c’è un’adesione registica tale da rendere lo sguardo di Kechiche quantomeno ambiguo, se non furbo, se non molto irrisolto, se non autocontradditorio. Ci sta dicendo che il mondo fa schifo? E perché allora indugiare così tanto in questa fotografia? Ci sta dicendo che questi intellettuali sono dei parvenu, dei parassiti estetici? Che i piccolo borghesi sono delle formichine operose ma ottuse? E allora perché crogiolarsi insieme ad essi in questa melma? Il solo sguardo persuasivo per raccontare oggi la società francese è uno stile disperato? E allora perché non rendere trasparente questa convinzione? Mi dispiace per Kechiche, ma sarebbe bello che si gridasse al capolavoro non con gli autori che riescono a darci conto di ogni singola lacrima di pianti viziati, ma con quelli che ci mostrano una luce negli occhi dei protagonisti. |
Adele nella scena finale del film va via, esce dal tempio dell’ipocrisia borghese, sola, nuovamente offesa, e umiliata; il suo sguardo e il suo incedere esprimono al contempo solitudine desolazione e fierezza. Da questa condizione esistenziale Adele non riesce ad evadere o ad elevarsi, né in realtà lo desidera veramente, anzi, ostentando la sua ostinazione a “non capire”, a darsi come soggetto esistenziale fallito, a manifestare sinceramente la sua incertezza, dichiara apertamente il rifiuto consapevole del palcoscenico della finzione borghese. A lei interessano l’amore, la passione, l’innocenza. Dall’introiettare i temi della sofferenza, dal rifiuto dell’omologazione della sessualità nell’adolescenza e a quello dell’omologazione nell’elevazione culturale, e dall’accettazione dell’imperfezione e del fallimento, trae la sua disperata forza, offrendo il suo corpo giovane e vitale e la sola esistenza per lei possibile, quella dell’amore incondizionato e assoluto.
Il film gioca sulle opposizioni: dei registri cromatici, degli odori, della materialità; il bianco dello champagne e delle ostriche verso il rosso del sugo e del vino, gli amplessi affannati contro i gelidi commenti sulla sessualità femminile, l’innocenza dei bambini e lo stanco cinismo degli adulti, la banalità semplice degli umili e la raffinatezza crudele dei privilegiati.
Il tradimento di Emma (o meglio la sua vera manifestazione) si consuma nella festa in cui appare Louise; qui le opposizioni e quella fondamentale, esistenziale, si concretizzano nelle parti tra servitore e padrone, parti che sono accettate con deliberata consapevolezza e sfida (anche se c’è un intruso, l’attore, magrebino, credo, che, in ogni caso, alla fine non riesce a interagire con Adele), sfida che si consumerà nello scacciare Adele dal mondo borghese.
Bellissima è la scena del tentativo di Adele di riavvicinamento, nel bar, dove è di nuovo offerta una sessualità incontaminata, e di nuovo è respinta.
il film mi è sembrato davvero molto bello.
Ho appena visto questo film, cosi’ discusso e criticato sotto diversi punti di vista, anzi forse uno per la maggiore, piu’ precisamente per le troppe scene di sesso. Il mio pensiero e’ stato :“non ho parole!”. Per il mio modesto parere, questa trama rappresenta un frammento di vita che qualsiasi persona potrebbe provare, spicca senz’altro la visione adolescenziale di Adele, della confusione del proprio essere, di voler trovare a tutti i costi cio’ che la fa star bene con se stessa. L’incontro con Emma le apre un nuovo mondo nel quale comprende di farne parte, venendo travolta da una passione irrefrenabile ed aggiungo… normalissima per una qualsiasi coppia appena sbocciata, e’ giusto far vedere anche la parte intima, perche’ e’ bello poter osservare l’interezza della persona… emotiva, sessuale, quotidiana. Purtroppo la musica nel corso della pellicola cambia, si casca sempre nella trappola del tradimento, per poi pentirsi di cio’, troppo tardi come sempre, consapevole che per una irrazionale banalita’ si perde definitivamente cio’ a cui si teneva di piu’, l’Amore, ma oramai era troppo tardi per poter tornare indietro. Peccato per la prevalenza di primi piani, il contesto e’ stato totalmente penalizzato, la realta’ che circondava i personaggi e’ quasi sempre rimasta occulta, quando in realta’ anch’essa ha un margine elevato d’importanza, necessario a trasmettere la completezza di un film, a parte questa puntualizzazione negativa, non posso dire che comunque nel suo insieme non mi sia piaciuto.