In Italia anche il concetto più spicciolo ed elementare di architettura sembra sempre qualcosa di incredibilmente estraneo rispetto alle logiche di autogestione grezze, ingorde e geometrali che governano tutti i settori dell'edilizia pubblica e privata. L'industria del cemento tricolore rimane uno dei pochi comparti dell'economia interna che riesca ancora a genererare un giro bulimico e vorticoso di investimenti. E' paradossale che un settore così centrale e foraggiato del nostro sistema produttivo sia però nell'insieme tecnicamente tanto arretrato e incapace di autoalimentarsi senza produrre forme di ricchezza sommerse, lavori lasciati a metà e case vuote. Discorsi come la sostenibilità ambientale, l'isolamento termico per favorire il risparmio energetico o il ricorso alle rinnovabili sembrano dei punti paurosamente assenti dall'attuale agenda setting dei piccoli e grandi costruttori italiani. Anche per questo un tema centrale ambizioso come quello della nuova Biennale di Architettura in programma ora a Venezia e basato sul Common Ground – o la necessità di fare il punto in questo campo su questioni come l'impegno, la comunicazione e l'esigenza di valori condivisi – appare, almeno a noi italiani, come un obiettivo distante o un esercizio teorico nebuloso.
Prima ancora si potrebbe riflettere sul livello di libertà professionale che è riservato a chi opera nel settore e quanto un architetto sia realmente in grado di incidere nelle scelte di aggregrazione e valorizzazione sociale negli spazi. Il Guardian, parafrasando Occupy, scriveva giustamente che solo l'1% degli architetti riesce ad affermarsi e dare sfogo al proprio stile. Molti di meno però, sono quelli che possono operare liberamente scelte artisticamente sociali. Nel suo memorabile saggio Contro l'Architettura l'antropologo Franco la Cecla già diversi anni fa del resto affondava una critica feroce contro il sistema irresponsabile e superficiale con cui le Archistar mondiali trasformavano il loro ruolo in un gioco formale e puramente estetico.
Fortunatamente la direzione della tredicesima Biennale nella figura di David Chipperfield, almeno nei propositi iniziali, intendeva proprio affrancarsi dai principi di quell'architettura decostruttivista ridotta a oggetto di marketing posato in città ed espressione rampante dell'ipernichilismo della società dei consumi. Il fatto che poi esponenti luccicanti di quella realtà come Zaha Hadid o lo stesso Jean Nouvel siano tra gli ospiti speciali di questa edizione non ha dato forse pieno seguito a quegli intendimenti, ma non si può negare che la mostra nel suo insieme non sia riuscita e che non proponga soluzioni di crescita percorribili e concrete.Divisa anche per padiglioni che danno spazio alle singole esperienze di 55 paesi nella splendida cornice dei Giardini dell'Arsenale, la tredicesima Biennale ha forse fornito le rappresentazioni migliori in quelle realtà che mosse dalla crisi o da eventi tragici come lo Tsunami hanno dovuto affrontare dei cambiamenti radicali. In questo senso è assolutamente emblematica l'esperienza del Giappone, che nel progetto Casa- per- tutti a Kesencho (Fukushima) ha visto nascere una cooperazione inaudita tra abitanti e costruttori in un percorso realmente sostenibile e rispettoso del territorio su cui ripartiva da zero. Interessante anche se un pò didascalica la rappresentazone della via Argentina contro la crisi, che con il Fideicomiso ha sperimentato una forma di appropriazione del proprio futuro abitativo da parte dei cittadini in quella realtà che non può essere assolutamente trascurata. Ultra futuristico il padiglione della Russia che combina il passo della riconversione verso il domani costruendo una città da un'ex base missilistica allo sguardo sul passato celebrando le sue vecchie e famigerate città della scienza.
Capiamo profondamente le critiche dell'architetto Wolf D. Prix del noto studio Coop Himmelb(l)au che ha definito la Biennale un posto dove “non si sollevano discussioni e temi legati all’architettura ma si dona estrema importanza allo spettacolo ed alle celebrità”. La scelta dell'Italia in questo senso di celebrare Olivetti del resto è legittimissima, ma chiarificatrice di come il nostro paese sia ancora legato indissolubilmente a forme di malcelato mecenatismo per promuovere forme interessanti di cambiamento. Nel complesso la Biennale che proseguirà fino a tutto novembre ha moltissime contraddizioni, ma ha la possibilità di creare spunti e discussioni solo se chi ne uscirà farà propri attivamente i concetti di responsabilità e impegno reale. Joseph Beuys diceva che tutti sono artisti. Con negli occhi gli scenari affascinanti e seducenti di questa mostra la massima ci torna in mente nel senso della potenzialità di tutti di farsi parte attiva invece che essere pubblico e consumatori di significato. L'agire politico diretto svolto in uno spazio pubblico reale può essere l'unica forma di attivazione di una comunicazione non mediata con gli altri e anche un modo per raggiungere il pubblico dei media contribuendo al farsi letterale delle notizie.