Sin dalla prima visione dei film di Malick si ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a opere per le quali non era possibile alcun tipo di confronto. Nessun parallelismo o legame con il cinema americano degli anni settanta sembrò praticabile. Vale la pena, in forza di ciò, ricordare brevemente il clima nel quale germogliò il primo lungometraggio di Terrence Malick, se non altro per capire come lo schivo regista texano si possa collocare ai margini, se non del tutto al di fuori, di un sistema che usciva dalla crisi degli anni sessanta per lanciarsi verso una ripresa produttiva e artistica alla quale fu appiccicata l’etichetta di New Hollywood.
Un aneddoto può aiutarci a capire meglio. Un anno dopo l’uscita di Easy rider (1968) la MGM metteva all’asta circa trecentocinquantamila articoli di scena che costituivano una grandissima parte della storia del cinema americano precedente, quello classico per intenderci. Fu come gettare dalla finestra i panni disusi, i vecchi mobili nella prospettiva, avviata con il film di Dennis Hopper, di comprarne di nuovi. Easy rider era la rivoluzione. Un film autoprodotto, realizzato in spazi esterni, reali, fuori dagli studios, che introduceva elementi di novità tali da distruggere in un colpo solo l’ormai asmatica macchina hollywoodiana, in grado di intercettare un pubblico nuovo, e sotto il quale crollava inesorabilmente il sogno americano. Una nuova generazione di registi si impose prepotentemente. Si chiamavano Scorsese, Coppola, Spielberg, Lucas, De Palma etc. In questo contesto denso di novità, ma anche di contraddizioni, esplode come un fenomeno difficilmente catalogabile l’opera di Terrence Malick e la sua figura di autore. Alessandro Baricco, in un recente articolo, ha giustamente parlato di un’altra lingua e di una diversa grammatica per tentare di definire la poetica del regista americano. Il suo retaggio culturale è estraneo al mondo del cinema, la sua formazione ha una matrice filosofica e i suoi film, fin dall’inizio, sembrarono indifferenti alle pratiche iconoclaste dei suoi coevi colleghi.
Nel 1973 la critica più miope e superficiale inserì Badlands (titolo stravolto in Italia con La rabbia giovane) nella lista di film appartenenti al tradizionale filone degli amanti criminali in fuga. Gangster story di Arthur Penn e Thieves like us di Robert Altman ne erano, si disse, i modelli di riferimento. Ma Malick si discosterà in maniera piuttosto evidente dai due film citati. Lontano dalla rappresentazione mitologica di Penn e dal trattamento revisionistico del genere ad opera di Altman, Malick concepisce Badlands come una favola fuori dal tempo. Violenza, nostalgia, iperrealismo: nessuna di queste categorie puo essere applicata al cinema di Malick. Un possibile parallelismo con altri autori è possibile stabilirlo soltanto per genere o soggetto. La complessità della sua visione rende più ardue alcune forme di associazione in particolare a proposito del suo secondo film, I giorni del cielo del 1976. Qualcuno vide delle analogie tematiche e formali con il ciminiano I cancelli del cielo, ma la distanza tra le due pellicole risulta evidente. Il film di Malick, svuotato da ogni contenuto politico, si impone nella sua dimensione pittorica cristallizzando e diluendo nella fissità di immagini meravigliose l’America rurale. Nei primi due film, Malick metabolizza una serie di riferimenti colti tra i quali emerge con forza la pittura di Edward Hopper. I quadri composti dal regista texano, siano essi raffigurazioni del deserto, della prateria, dello spazio urbano, rimandano a un’iconografia della sospensione e dell’attesa, ad una geografia dello spopolamento e dello spaesamento che ha nel gotico americano in generale, e in Edward Hopper in particolare, il suo cantore principale. Come nel pittore, anche nella poetica del regista non c’ è interesse di tipo psicologico: il cinema di Malick è piuttosto il tentativo di rappresentare i fondamenti della natura e dell’uomo, la ricerca dell’essenza, dell’immutabile sotto le apparenze mobili.
L’ indagine si sposta sul rapporto tra natura e civiltà, tra natura e uomo. Ai margini del deserto l’uomo ha costruito la città e vi ha insediato una comunità. Persiste quella patologia del deserto, la sua vertigine del vuoto, la sua vocazione all’assenza. Il cinema di Malick è essenzialmente cinema del paesaggio che assume forza espressiva e che si fa paradigma visivo di una condizione esistenziale. Il silenzio è un elemento molto presente nei suoi film. Un silenzio dell’assenza, dell’attesa, del pensiero.
Ne La sottile linea rossa, il suo terzo capolavoro, è il silenzio che accompagna l’azione dei soldati evocando una contemplazione della natura più diretta, associata a una ricerca di spiritualità. La violenza della guerra si percepisce nei monologhi interiori degli uomini delle truppe americane e nell’indifferenza della natura che li osserva cadere sotto i colpi dei giapponesi nella battaglia di Gualcanal. Malick non è interessato a raccontare la battaglia su un piano storico-politico, ma cerca piuttosto di capire quale sia il posto dell’uomo nel mondo, un mondo dove gli elementi della natura si mostrano per come sono. La natura nasce, vive, si rigenera dove tutto è regolato e pacificamente armonico. L’ uomo invece si fa domande e si dà risposte sbagliate. La natura non è in guerra contro nessuno, non ha voci, nè pensieri. Morte e resurrezione sono il suo modo di essere. Malick è un pensatore o un moralista e ciò che gli interessa è leggere nella guerra l’ampiezza dello spettro di bassezze di cui l’uomo è capace. La voce fuori campo, altro elemento costante dei suoi film, funziona come un contributo a porre problemi morali e filosofici.
La violenza, nei film di Malick, è indubbiamente presente, ma in maniera latente, attenuata proprio perchè i suoi film non sono interessati a studiarne cause o effetti. In Badlands la violenza non è nei fatti di sangue che coinvolgono i due protagonisti, ma nell’indifferenza complice che i due provano verso il mondo esterno, non vista in chiave antisociale. Kitt e Holly non odiano la società, non fuggono da essa, uccidono per difendere il loro territorio che non vogliono cedere. Non c’è spazio per alcuna spettacolarizzazione. Gli omicidi avvengono in un lampo, la violenza esplode e termina prima che noi spettatori possiamo rendercene conto. La loro fuga verso le terre del sud non ha niente di liberatorio. I grandi spazi rimandano a un idea del vuoto, della solitidine, e non alla possibilità di apertura alla conoscenza di se stessi come avviene nei road movies americani. In questo, come negli altri film di Malick domina un’atmosfera metafisica, di astrazione, che stacca le sue immagini dalle circostanze del presente, fissando il momento oltre il tempo. E’ la luce a giocare il ruolo decisivo per la sua iconografia. Una luce naturale, diafana, che avvolge le cose e le figure dentro una malinconia trattenuta. Tornano alla mente i quadri di Hopper, le sue architetture, i suoi interni a protezione dei suoi soggetti soli, che suggeriscono un senso di eternità.
Anche nell’ultimo film, The tree of life è fortemente presente questa reminiscenza, in particolare per la riproduzione di un altro elemento architettonico caro al pittore: le finestre, che superano la funzione di elemento scenico e s
ono veicoli di apertura sull’interiorità o di pulsione verso l’esterno, nella fattispecie verso l’universale. E’ il film più ambizioso di Malick e (per ora) il meno capito. Un film sulla totalità dell esistenza, onnicomprensivo, portentoso nella sua forma espressiva e visiva, pieno nei suoi contenuti. Un cinema altro. Ormai raro. Siamo ormai abituati a chiedere al cinema le nostre storie, lo specchio delle nostre vite. Abbiamo invocato il realismo, la vicinanza, la plausibilità. Ci siamo allontanati riluttanti dall’astrazione, dalla mediazione, dalle complesse visioni e dalle alte riflessioni. Malick ci ha ridonato questa coscienza perduta.