In occasione del debutto del suo primo testo teatrale,”La terza vita”, in scena al Teatro Valle di Roma da venerdì 11 a domenica 13 marzo, abbiamo incontrato Vittorio Moroni, scrittore, regista e anche produttore con la sua 50N che ci ha raccontato com’è nata e si è sviluppata la nuova avventura teatrale e delle difficoltà che un desolante panorama culturale e sociale come quello italiano in questo momento storico pone a chi cerca spazi per portare avanti e dare esistenza ai propri progetti.
Dal film di fiction (Tu devi essere il lupo) al documenatario (Eva e Adamo) passando per la contaminazione tra questi due linguaggi (Le ferie di Licu) fino ad arrivare al teatro, puoi parlarci del percorso che ti ha portato a confrontarti con questa nuova esperienza?
In realtà questa esperienza teatrale è mia fino a un certo punto perché il regista non sono io, ma è Armando Pinheiro, un attore con cui ho lavorato in Tu devi essere il lupo e che è un regista teatrale. In effetti completa però una mia esplorazione di mondi linguistici diversi ed assolve anche ad un cruccio, un dramma che a quarant’anni sento con una certa forza: perché la mia esperienza da un linguaggio e l’altro è di vedere come la maggior parte dei progetti che uno inizia e sui quali investe molto finiscono per fallire per svariate ragioni. A volte – soprattutto per quanto riguarda i documentari – per ragioni di affettività, perché vanno a toccare delle corde che sono molto profonde e quindi è diffcile mantenere un accesso interessante e approfondito con delle persone che devono confrontarsi con il dolore della loro storia. Il caso di Aisha, la protagonista dello spettacolo, è quello di un documentario che io ho cercato di fare per diversi mesi e che alla fine ho dovuto interrompere anche se la storia con cui io sono entrato in contatto presentava dei materiali così incadescenti ed interassanti che per me è stato molto diffcile metterci semplicemente una croce sopra e catalogarla nel campo santo dei progetti non fatti.
Venendo meno la protagonsita del documentario, avevo bisogno di spostarmi dall’altra parte, di compiere un doppio salto mortale diventando il narratore in prima persona di quella storia, immedesimandomi nel corpo, nella mente e nei sentimenti di una donna di un altro continente: era il tentativo di sottrarre all’annichilimento la storia dandole un’altra forma. A un certo punto anche il progetto cinematografico non è arrivato in fondo per ragioni meramente produttive finchè non ho incontrato l’attrice Laura Nard che mi ha chiesto degli estratti per dei reading. All’inizio non c’era l’idea di fare uno spettacolo teatrale, ma quando si è imbattuta in questo testo lei ha trovato che fosse adatto, una volta riscritto, ad essere rappresentato sul palcoscenico. Io mi sono un po’ fidato della sua guida, del fatto che lei sentisse che quella cosa potesse essere portata in scena e anche se si trattava di un personaggio berbero marocchino interpretato da un’attrice romana, bionda e con gli occhi azzuri mi è sembrato subito un bel corto circuito e che questa operazione potesse esprimere delle idee a cui tenevo: il fatto che quella storia non dovesse essere confinata solo ad un ambiente culturalmente e geograficamente definito, ma parlare a molte donne. Così abbiamo scritto questo testo e l’abbiamo presentato al concorso SIAE/AGIS/ETI e devo dire che vincere quel concorso è stato l’incentivo per imbarcarci nella piccola artigianale, ma lunga e faticosa produzione dello spettacolo.
Nel tuo cinema hai spesso mostrato una tendenza ad immedesimarti e ad empatizzare maggiormente con i personaggi femminili, come accade in questo testo…
In generale i personaggi femminili mi interessano di più, li trovo più ricchi, più pieni di possibilità. Sono più magnetici. Finisco sempre per interessarmi di più alle loro storie e anche quando ci sono un personaggio maschile e uno femminile finisco in qualche modo per essere più intrigato dal personaggio femminile, com’era successo per Le ferie di Licu. In quel caso però avevo una condizione di maggiore facilità per la mia posizione di narratore che osservava e che poi ovviamente si doveva immedesimare e scegliere cosa far vedere e in certi casi anche rimettere in scena ciò che aveva visto. Dovevo quindi cercare una comunanza, ma nel caso di Aisha si trattava proprio di scrivere, di gettarsi nella scrittura in prima persona di un personaggio femminile tout-court. Per farlo ho sentito l’esigenza di confrontarmi continuamente con la protagonista del documentario e con altre donne marocchine ed è stata la suggestione degli incontri con loro a convincermi che il testo che era stato scritto poteva essere rappresentato. Era stato ricavato in parte dalla storia di Aisha e in parte era nato dall’invenzione o dall’immaginazione di quello che avevo percepito e provato, oltre al fatto che le donne a cui lo facevo leggere si emozionavano e si accanivano su alcuni dettagli in quanto volevano compiere insieme a me questo lavoro di riscrittura. Devo dire che nel momento in cui Laura Nardi ha deciso di prendere in mano questo personaggio tutto è diventato più facile perché nonostante la distanza geografica e culturale tra Aisha e Laura, entrambe condividono molte cose: l’età, il fatto di essere una madre, di aver avuto un marito… La sensazione che le vicinanze siano maggiori delle differenze si sta concretizzando nell’incarnazione che quella storia ha avuto nel corpo di una persona e nel corpo di uno spettacolo.
Il percorso di preparazione e di realizzazione del testo come ha cambiato la tua visione del mondo di una donna del medio-oriente? Quali scoperte hai fatto?
Durante la lavorazione del documentario mi rendevo conto che le cose che viveva Aisha erano le stesse che viveva mia madre e che in qualche modo, pur essendo un uomo occidentale, ho vissuto anch’io come ad esempio lo sradicamento: il fatto di trasferirsi da un luogo dove si è passata la propria infanzia a un altro, come succede a lei che da un piccolo villaggio del Medio-Atlante si è trasferita in una grande città del Marocco per arrivare poi a Milano, città del nord Italia… Ecco questa transizione e il relativo sradicamento sono cose che non sono inimmaginabili per ognuno di noi. Io ad esempio non sono nato a Roma anche se ovviamente il fatto di parlare la stessa lingua e di avere un lavoro e una mia autonomia marcano delle distanze tra me e Aisha, però ci sono degli aspetti che posso comprendere. Ciò che un emigrante vive e i problemi che devono affrontare possiamo comprenderli non solo da soggetti che osservano, ma anche che condividono sensazioni comuni.
Ci sono poi due grandi temi nella storia vera e nello spettacolo che per me sono molto interessanti e che avranno a che fare con il futuro della nostra comunità: il rapporto tra la prima e la seconda generazione di emigranti. Da una parte c’è questa donna, che ha sognato con il marito l’Europa come destinazione e compimento di progetti fantastici, e che si trova invece a vivere una quotidianità oggettivamente più povera rispetto a quella che viveva a Fes, la città marocchina da cui proviene e dove h
a fatto l’Univeristà; dall’altra ci sono i figli che sono nati in Italia e che hanno una progettualità e una padronanza della lingua italiana che la madre non possiede.
Qesto crea un’esasperazione della solitudine della madre, la allontana anche dai propri figli e quando muore il marito – figura un po’ totemica che ha presidiato tutte le scelte – si trova per la prima volta completamente autonoma nel dover prendere la decisione drammatica tra il tornare al paese d’origine con i figli che non sanno nemmeno cosa sia e lo percepiscono come lontanissimo oppure rimanere in Italia dovendo rimettere totalmente in discussione il suo rapporto con la comunità.
Ecco trovo che questo conflitto sia qualcosa che circola totalmente intorno a noi, che è nella nostra città, nelle nostre vite che presto entrarà anche nella nostra quotidianità
Come ti sei sentito ad essere “solo” autore del testo, lasciando a un altro il ruolo di regista?
C’è differenza tra l’essere genitori madri e l’essere genitori padri rispetto alla propria opera ed è una cosa che ho sperimentato nell’ultimo anno e mezzo scrivendo questo spettacolo teatrale e la sceneggiatura dell’ultimo film di Emanuele Crialese (Terraferma), dove ho partecipato in modo febbrile alla gestazione della sceneggiatura e poi il mio ruolo è diventato più defilato, come quello di un padre che fuma nervosamente nella sala d’attesa. A un certo punto, durante la visione della prima stesura di montaggio del film, ho provato la stessa sensazione che credo provi un padre quando vede il proprio figlio, riconoscendolo come qualcuno che condivide il tuo DNA, ma anche con questa sensazione un po’ magica che qualcun altro l’ha fatto e che la tua fantasticheria è diventata realtà, ha preso delle facce, dei corpi, un ritmo.
Nel caso dello spettacolo ho dovuto fare un passo indietro nonostante sulla regia avessi delle intuizioni o meglio delle predisposizioni automatiche, un’idea di direzione ma al tempo stesso mi rendevo conto che l’unica opportunità interessante per stare nel progetto era che il regista potesse tradire la mia direzione e vedere nel testo qualcosa che io non vedevo o che non avevo pensato di realizzare in quel modo, come se sentissi dentro quel testo una forza indipendente da me perché il suo Dna veniva dalla realtà, dunque il suo potenziale espressivo e comunicativo prescindeva dalla mia idea di regia.
Per questa produzione tutto è stato un po’ familiare, non abbiamo avuto dei ruoli così distanti, con la 50N abbiamo curato l’aspetto produttivo e siamo stati alle prove, io ho detto le mie opinioni e rispettato quelle del regista anche quando divergenti… Ho sicuramente cercato di combattere quando il regista non mi sembrava così sicuro della sua strada ed è avvenuto un dialogo bello e fecondo.
Quali difficoltà hai incontrato nel cimentarti nella produzione teatrale?
La produzione di uno spettacolo teatrale è stato capire inanzitutto come funziona il meccanismo produttivo… Io pensavo che il cinema fosse un ambiente chiuso invece il teatro è chiuso al cubo. Forse anche per carenza di mezzi o per una riduzione progressiva degli investimenti sta accadendo che mancano gli spazi per distribuire, come al solito non ci sono, mentre la produzione, il fare esistere le cose è possibile grazie ai mezzi e alle possibilità che tutti impiegano creando un recinto che, seppur limitato dal punto di vista economico, permette al progetto di nascere e svilupparsi. Abbiamo cercato di usare l’immaginazione e di fare delle scelte che non fossero scontate e che fossero belle per sopperire alla mancanza di denaro. Per la distribuzione però abbiamo dovuto affidarci ad altri… Purtroppo il teatro funziona in un modo terribile perché i grandi teatri stabili accolgono solo spettacoli che loro stessi producono o che producono altri teatri stabili con cui hanno dei rapporti.
Noi abbiamo avuto questo privilegio di poter debuttare e replicare tre giorni in un Teatro importante come il Valle di Roma, ma mi rendo conto che questa è un piccola goccia in un mare che sarà diffcile da navigare: quello di tentare di arrivare in posti anche più piccoli come abbiamo fatto con il cinema con la grande differenza che il teatro ha un costo continuo essendo un evento dal vivo in cui ogni volta bisogna chiamare gli attori, i tecnici e tutto lo staff per mettere in scena lo spettacolo. In un mondo così chiuso e così poco curioso dove si ha la sensazione che i progetti non vengano neanche presi in considerazione o valutati in base al valore ma a delle relazioni di potere che si sono instaurate ancora prima che il progetto prenda vita. Il Teatro in questo senso è l’ennesima declinazione delle disfunzioni della cultura in questo paese. Noi cercheremo comunque di far esistere quello che altrimenti non esisterebbe con coraggio, senza lamentele, con la consapevolezza di aver sottratto un’altra croce al campo santo dei progetti defunti.