Esiste una marcata somiglianza fisica tra due interessanti documentari dell’ultima stagione cinematografica italiana. Il primo è stato proiettato l’8 settembre del 2006 nel Palalido di Venezia; il secondo ha colto l’occasione offertagli dalla neonata “Festa del cinema di Roma”. Uno si intitola Il mio paese; l’altro La Strada di Levi. Il primo porta la firma di Daniele Vicari, un regista che si è fatto apprezzare da pubblico e critica con un film d’esordio dal titolo sbagliato, Velocità Massima, e che non è riuscito a farsi comprendere del tutto (né dall’una né dall’altro) con un’opera seconda dal titolo più seducente e dal contenuto più ambizioso: L’orizzonte degli eventi.
L’autore del secondo lavoro è invece Davide Ferrario: regista torinese noto al pubblico soprattutto per le fiction da sala Tutti giù per terra e Dopo Mezzanotte. La struttura dei due progetti, definibile come una “particolare forma di racconto di viaggio” funge da massimo comun denominatore tra questi due documentari. Entrambi gli autori, infatti, ripercorrono, a distanza di alcune decine di anni, le tappe di un viaggio precedentemente percorso da altri, e già trasfigurato da questi, in un testo storico ed artistico: Vicari rimette il piede nel sentiero creato quasi cinquanta anni prima dal documentarista danese Joris Ivens e Davide Ferrario si avventura nei paesi attraversati da Primo Levi all’indomani della sua liberazione dal lager di Auscwhitz.
Tra il 1959 ed il 1960 Ivens realizzava, su commissione del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, il documentario L’Italia non è un paese povero. Era un viaggio dal nord riemerso dalle macerie del secondo conflitto mondiale al sud ancora fortemente arretrato, nel tentativo di raccontare lo sforzo industriale di un paese alla vigilia del boom economico. Quarantacinque anni dopo, tra il 2005 e il 2006, Daniele Vicari decide di ripercorrere la stessa Italia in senso inverso, per riflettere sugli esiti problematici di quel sacrificio e di quel cambiamento. Il suo viaggio parte dalla Sicilia industriale di Gela e Termini Imerese, passando per Melfi e i laboratori dell’Enea di Roma. Giungendo a Prato (per affrontare la complessa dinamica dell’immigrazione cinese) e arrivando fino a Porto Marghera.
L’operazione di Ferrario ha una struttura molto simile a quella compiuta dal collega Vicari: il testo di partenza è La tregua di Primo Levi e la distanza antropologica che separa l’opera originale da questa strana forma di remake è netta almeno quanto quella che c’è tra il lavoro di Ivens e quello di Vicari. Ma c’è un elemento che sposta e che separa nettamente l’opera di Ferrario da quella di Daniele Vicari. E non è il valore intrinseco agli originali di partenza: non è nella grandezza della prosa leviana che sta la crisi del paragone tra Il Mio Paese e La strada di Levi.
Primo Levi definiva “Tregua” il periodo che intercorse tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio della guerra fredda. Egli visse quel momento viaggiando, forzatamente, per nazioni e culture diverse, accomunate soprattutto dai segni feroci della guerra appena trascorsa. Il suo lento viaggio di ritorno durò otto mesi. Duecentocinquanta giorni di volti e città, pensieri e appunti. Levi passò, trasportato, per alcune delle repubbliche socialiste sovietiche e affrontò quasi immediatamente il ritorno nella terra tedesca: la descrizione dei suoi pensieri, appena toccato il suolo di Monaco, è un momento letterario di dolorosa bellezza. Nel romanzo, lo scrittore ebreo, estende quel collettivo concetto di tregua al suo sentirsi sospeso in una momentanea calma personale, in un breve frammento di relativa leggerezza, concessagli dagli eventi dopo “l’orribile” appena vissuto e le indelebili conseguenze che sarebbero sopraggiunte. Da quello stato d’animo di personale e confuso smarrimento, Primo Levi individua una situazione storica collettiva, di tregua, appunto, che dura per dodici anni. Davide Ferrario costruisce un’analogia tra quel breve periodo storico ed un altro, che egli colloca tra la fine del comunismo e l’attentato alle Twin Towers. Sia Vicari che il regista torinese sovrappongono i loro viaggi ad altri, parlando di oggi, tirando somme e rintracciando differenze. Ma la colossale distanza tra i due reportage sta nella presenza elettrica dell’olocausto in uno dei due lavori. Toccare quel tasto della storia, qualcosa che ha a che fare con quella parola, e con tutto l’immaginario che questa produce, sconvolge irrimediabilmente il segno di tutto il materiale registrato. L’indagine vicariana è puramente analitica: si parla di economia, di politica, di modificazione culturale, di crescita e sviluppo. Il viaggio ferrariano è pervaso da un dolore sordo dall’inizio alla fine. Gli appunti sulla Polonia che egli scrive camminando, come quelli sull’Ucraina e la Bielorussia, sono cosparsi di cenere antica il cui odore ne annebbia la purezza. Le parole di Levi, adoperate costantemente lungo tutto il film, appesantiscono il passato e lo fanno premere sul presente rischiando di schiacciarlo. Colpisce Levi, con la sua grazia, la sua profonda intelligenza, la poesia del suo sofferente continuare a vivere. Più dei drammi nucleari e politici che Europa e dintorni hanno continuato a sopportare nei decenni a venire. E’ la grazia del poeta che stride con la tragedia, e non è la storia recente di Ferrario, seppur problematica e importante, a prenderci per la pancia. Attraverso un interail d’autore capiamo ancora una volta quanto Primo Levi sia l’opposto esatto di quello che la storia gli ha combinato. Su una retta, infinita come tutte le rette, da una parte Primo Levi, dall’altra la barbarie dello sterminio.