[**] Sullo sfondo, una terra arsa dalla luce del sole. Lo sguardo di una bambina che filtra tra le dita di una mano. Quest’ultima vorrebbe proteggerla, nasconderle la cruda realtà di quel mondo. Ma gli occhi della piccola non sembrano aver paura, non indietreggiano, si fanno spazio tra i polpastrelli in cerca della verità, fino a scorgere, nel corpo carbonizzato di un fattore, la morte, la mafia. Marco Amenta, nel suo lungometraggio d’esordio, La siciliana ribelle, ci preannuncia, dopo poche inquadrature, quello che caratterizzerà il destino della giovane protagonista, Rita Mancuso: l’ostinazione di voler vedere. Ma quest’indole, in una terra in cui è a malapena concesso di guardare, la porterà presto all’emarginazione e all’esilio.
È una mattina di febbraio del 1991, quando la diciassettenne Rita Mancuso (Veronica D’Agostino) si reca dal procuratore antimafia di Palermo (Gérard Jugnot) per vendicare gli assassini del padre e del fratello, entrambi mafiosi. Da questo momento in poi la giovane protagonista è minacciata dalla malavita, perché in possesso delle prove per condannarla, ed è ripudiata dalla madre (Lucia Sardo), perché la giustizia è un’eresia in un mondo che l’ha dimenticata. “Tu sei la mia vergogna, …” urla la signora Mancuso a Rita, che si è rivolta alla legge “… mi fai schifo, sei pazza, pazza”. La giovane ribelle sarà così costretta ad abbandonare la sua terra e a vivere sotto una nuova identità a Roma. Qui Rita, aspettando di testimoniare al processo per mafia, fa i conti con la propria solitudine, la solitudine di chi non può chiudere gli occhi, di chi non riesce ad uniformarsi ad un mondo che non comprende, ma anche di chi per questo ha rinunciato per sempre ad una vita normale. “Hai diritto di dimenticare e avere una vita normale” le dice il procuratore (ormai padre adottivo), preoccupato per le pesantissime prove che Rita dovrà affrontare in udienza. Ma lei non si perde d’animo, rientra in aula e accusando suo padre e suo fratello come mafiosi, riesce ad inchiodare anche tutti gli altri imputati coinvolti. Il procuratore viene ucciso in un attentato poco dopo, ma l’esito della sentenza è ormai scritto. L’unica cosa che possa comprometterlo è una ritrattazione di Rita. La mafia ci prova, e attraverso Vito (Francesco Casisa), il fidanzato storico della protagonista, le offre una vita ricca e rispettata nella sua Sicilia. Allora Rita capisce che finché sarà in vita la giustizia potrà essere ancora in pericolo. La protagonista guarda negli occhi Vito e dirigendosi verso il balcone gli risponde “stavolta la mafia perde”.
Il film, ispirato alla vera storia di Rita Atria, risente notevolmente di un linguaggio troppo televisivo e didascalico. Le scene si soffermano giusto il tempo di informarci sulle vicende per scivolare via un attimo dopo, con un ritmo che non ci lascia il tempo di entrare emotivamente in contatto con la vita dei protagonisti. Le parole narrano più che le immagini. Gli stati d’animo dei personaggi ci vengono raccontati più che mostrati. Non basta dire “La mia vita era buia, anche i pomodori sapevano di sangue” per farci sentire la disperazione che prova la protagonista, in seguito all’assassinio del fratello. Lo stesso è per l’isolamento che Rita vive nei giorni dell’esilio; il “nessuno può capire il vuoto che ho dentro” è solo dichiarato dalla protagonista in un momento di solitudine, ma non è abbastanza per creare davvero empatia. A questo va aggiunta una recitazione decisamente sotto tono, che neanche i dialoghi in dialetto riescono a salvare. Unica eccezione è per Veronica D’Agostino che interpreta la protagonista. Ma che al contempo, emergendo, evidenzia ancor più le lacune dei suoi colleghi.
Il tentativo di voler dare un taglio realistico a molte scene, non inserendovi l’uso della musica, appare poco riuscito, in quanto queste non ne guadagnano in verità. Al contrario le poche in cui la musica è presente sono le più interessanti. Una di queste, per stile, intensità e potenza ci porta lontano dalla narrazione del film stesso. Rita entra per la prima volta nell’aula del processo, si avvicina di proposito alle sbarre dietro alle quali sono rinchiusi Don Salvo (il mandante dell’omicidio del padre e del fratello) ed altri imputati per mafia. Gli occhi della giovane testimone scorgono fermi i volti degli accusati che ingiuriano parole a malapena percepite. Le note di chitarra in sottofondo conferiscono alla scena un’atmosfera surreale, in cui i ruoli per un attimo sfumano, i giudizi si perdono; vittime e carnefici, vili ed eroi, si muovono come attori attraverso un copione di cui nessuno è autore. Poi il processo inizia e l’incanto finisce.
In conclusione, seppur non si possa parlare della Siciliana ribelle come di un film ben riuscito, la forza e la verità della sua storia ci fanno comunque essere grati al regista che ha voluto farcela conoscere.