Carlo Mazzacurati con la sua divertente commedia La sedia della felicità più che un testamento filmico ci ha voluto lasciare divertendosi e divertendoci con una scia di sorrisi e di risate.
Il suo è un film scacciapensieri, nel quale il regista, morto dopo una lunga malattia a soli 57 anni, pur non abbandonando il mondo della provincia veneta cui aveva dedicato altri film, qui ce lo mostra con gli occhi “spaesati” dei due protagonisti che vengono da fuori: il tatuatore Dino è romano e Valerio Mastandrea ne incarna bene lo spirito di perdente intraprendente, mentre l’estetista Bruna, interpretata ottimamente dalla palermitana Isabella Ragonese, tradita dal fidanzato e in difficoltà con il suo solarium è decisa a cogliere un’occasione di riscatto.
I due si imbattono infatti in un’avventura picaresca e sgangherata. Mazzacurati abbandona scientemente il suo cotè malinconico e imbocca spesso le vie della farsa e dello slapstick.
Dino e Bruna vanno a caccia di una sedia nella quale dovrebbe essere stato nascosto un tesoro da una detenuta che in punto di morte ha confidato il segreto alla ragazza mentre le faceva la manicure in cella. Ai due si unisce presto anche un ingombrante e surreale sacerdote, in salsa spaghetti western, interpretato da Battiston, che con Mazzacurati aveva girato anche il divertente La Passione che gli era valsa diversi premi e un ruolo, a mio parere meno riuscito, ne La giusta distanza.
Il ritmo della sedia della felicità, grazie ad una sceneggiatura esile ma divertente e ad un cast azzeccato, non si ferma mai e ingloba moltissimi personaggi e molti attori anche in piccole ma gustose partecipazioni: Albanese si sdoppia in due gemelli, Bentivoglio e Orlando fanno aste di pittori naif in una tv privata, Ilvo Diamanti prende in giro le sue stesse analisi sociologiche, Citran è uno strambo collezionista di seggiole, la Vukotic una medium malandata, Balasso un piccolo squalo a caccia di sghei con la sua impresa. Si ride spesso, anche quando il regista e gli sceneggiatori sconfinano nell’assurdo, come nella scena finale sulle Dolomiti, ma l’atmosfera e lo spirito yiddish da cui deriva lo spunto letterario permettono allo spettatore di starci dentro.
Mazzacurati ha raccontato nelle sue interviste durante la lavorazione del film che lo spunto del soggetto gli è stato donato dalla sorella slavista che gli fece conoscere il libro russo Le dodici sedie, un’opera del 1928 a quattro mani di Petrovic e Arnoldovic ll’f (edita in Italia dalla Bur) che è stata spesso utilizzata e rimaneggiata dal cinema, tra gli altri c’è un film di Mel Brooks del 1970 Il mistero delle dodici sedie.
Uno spirito giusto per salutare il suo pubblico e chiudere con uno slancio finale una carriera interessante, anche se altalenante, su cui magari varrà la pena di tornare presto a riflettere.
Francamente ho come avuto l’impressione che il film, considerando la morte di Mazzacurati, sia stato portato a termine da qualcun altro che non sia lui…è un pò troppo fuori dalle righe, non l’ho molto apprezzato.
Sinceramente non credo che vi siano mani altrui, se guardi le sue ultime interviste il regista ha dichiarato che voleva divertirsi e sganciarsi dal suo abito malinconico. Poi un certo lavoro sopra le righe c’era già ne “La passione” e confesso che preferisco le sterzate “pericolose” nel grottesco che certe sue medietà in film magari più compatti ma, a mio parere, mediocri come “A cavallo della tigre” o “La giusta distanza”.