Dopo cinque anni Giuseppe Tornatore torna al cinema con un film le cui atmosfere misteriose ed enigmatiche ricordano quelle di Una pura formalità (1994), uno dei suoi film migliori. Lì il noir si stratificava progressivamente riflettendo il divenire fluttuante, mutevole e pieno di contraddizioni della personalità del protagonista. I contenuti dei flashback cambiavano continuamente a seconda della versione che il personaggio principale forniva di una realtà che solo alla fine verrà individuata perché accettata.
Ne La sconosciuta, invece, Tornatore rifugge dal classificare il film come un vero e proprio thriller; afferma che definirlo “un noir non esaurisce la natura dell’opera che è invece un complesso intreccio di sentimenti e di mistero”. E’ però proprio questa ambizione a voler oltrepassare i generi, a costituirne il limite. Ma vediamo con ordine.
La narrazione procede da subito su due piani temporali che nel corso del film riconosceremo come il passato e il presente della protagonista.
Arrivata a Trieste, la giovane ucraina Irena trova lavoro in un palazzo di fronte al suo appartamento ma è da subito chiaro che non è solo un lavoro quello che cerca. Il suo vero obiettivo è quello di entrare in una delle famiglie di orafi di quel condominio per sostituirsi alla loro bambinaia (Gina – Piera Degli Esposti): da questo momento, il piano della “sconosciuta” prende la forma di un inesorabile, progressivo inserimento nella famiglia Adacher (interpretata dalla coppia Gerini-Favino), dove si conquista fiducia e l’affetto esclusivo della piccola Tea.
E però improvvisamente il passato di Irena, che irrompe in flashback sempre più lunghi paralleli alla vicenda, esplode e la costringe a farci i conti. Ė a questo punto che fra i due piani narrativi appare qualcosa che sembra appartenere ad un terzo, alla sfera del desiderio: Irena immagina di uccidere il suo aguzzino, o la scena dell’efferato accoltellamento in realtà non produce l’esito sperato? Elimina davvero Muffa o ci riesce solo quando decide di fare i conti con il suo passato? Altrettanto viene da chiedersi quando Gina, la bambinaia ridotta a un semivegetale dall’incidente provocatole da Irena, si riprende miracolosamente: è davvero guarita o è il desiderio di Irena a produrre l’evento che la libererebbe dal senso di colpa? E infine, l’affetto e la compassione che portano Tea, ormai giovane donna, a cercare Irena all’uscita dal carcere, a quale piano narrativo appartengono? A quello soggettivo, psicologico o a quello oggettivo?
Perché se si collocassero nella sfera del desiderio, nella speranza, sarebbero comprensibili espressioni di quell’amore che Platone definisce nel Simposio come il figlio di Penia e Poros, di povertà ed espediente. Sarebbe un amore povero, sempre alla ricerca di appagamento, dinamico e insaziabile. Spingerebbe Irena a muoversi su più piani, oggettivo e soggettivo (uccidendo o immaginando di uccidere), liberandosi dagli ostacoli senza scrupoli pur di riappropriarsi della propria vita. E porterebbe Tea stessa a cercare Irena che si è presa cura di lei quando era piccola, in barba a qualsiasi presunta superiorità biologica della maternità.
Rimane da vedere quanto tutto ciò si configuri come un’operazione riuscita o se invece Tornatore, inoltrandosi nella mescolanza degli stili (noir, denuncia sociale, dramma), si muova con poca modestia. Numerose sono le “scene madri” sottolineate dall’enfasi musicale di Morricone, più rari i momenti di originale bellezza (la ricerca disperata nella discarica dell’unico e malinconico amore perduto; la violenza e la solitudine del parto).
Dunque, tornando all’inizio, l’ambizioso progetto che dà vita a questo intreccio complesso di generi sembra cadere spesso in uno sguardo eccessivo e artificioso; i diversi piani vengono mescolati senza mai amalgamarsi dando più l’idea di volere urlare in faccia e colpire allo stomaco anziché offrire un’indagine psicologica più approfondita delle storie di questi delicati personaggi. Insomma, un film che rimane più per l’impatto che per l’eco dei temi trattati.