DA PARIGI – Sono le quattro di un martedì pomeriggio, la sala di un cinema del Quartier Latin è piena zeppa, film proiettato: L’influenza dei raggi gamma sul comportamento delle margherite di Paul Newman. Bisogna dire che anche a Parigi, capitale mondiale della cinefilia, questa è una circostanza abbastanza rara. Eppure non è stata la notizia della morte del suo regista, sopravvenuta quasi un mese fa, il 26 settembre, a riempire la sala: il film di Paul Newman, artista straordinario dai molteplici talenti, ha risvegliato l’interesse del pubblico fin dal primo giorno della sua uscita agli inizi di settembre.
L’influenza dei raggi gamma sul comportamento delle margherite è un film del 1973: la società di distribuzione francese Splendor Films ha deciso, facendo prova di un certo coraggio, di acquistare quest’anno i diritti dalla major americana permettendoci così di conoscere un’opera singolare, forte e profonda. Riscoprire il lavoro di Paul Newman regista è forse la migliore maniera per rendergli omaggio. Paul Newman teneva in modo particolare ai suoi film. In realtà ne ha girati solo cinque: Rachel, Rachel (1968), Sfida senza paura (1971) che ha ripudiato in seguito, L’influenza del dei raggi gamma sul comportamento delle margherite (1973), Harry & Son (1983) e Lo zoo di vetro (1987). Per la maggior parte autoprodotti, questi lavori testimoniano di un modo di fare cinema audace, personale, contro corrente, alternativo rispetto al main stream hollywoodiano.
In questo senso è ancora più sorprendente trovare proprio un idolo dello star system americano, un divo internazionale, dietro la cinepresa di film di questo taglio. Paul Newman attore brillante e sensibile, interprete maschile dal fascino leggendario – basti pensare al suo ruolo di giovane atleta depresso e ribelle accanto a Liz Taylor in La gatta sul tetto che scotta – ha saputo incarnare ruoli molteplici e diversissimi ed è stato protagonista di alcuni fra i più grandi successi della storia di Hollywood (oltre al già citato La gatta sul tetto che scotta, Exodus, Lo spaccone, Intrigo a Stoccolma, Il sipario strappato, Butch Cassidy e Billy the Kid, Nick mano fredda, La stangata, L’inferno di cristallo).
In quasi mezzo secolo di carriera, dal 1954 (Il calice d’argento di Victor Saville) al 2002 (Era mio padre di Sam Mendez), l’attore ha recitato in cinquantacinque film ed è stato diretto da tre generazioni di registi fra cui contano: Robert Wise, Michael Curtiz, Arthur Penn, Otto Preminger, Alfred Hitchcock, John Huston, Robert Altman, Sydney Pollack, Martin Scorsese, James Ivory, Joel e Ethan Coen. Le sue interpretazioni gli sono valse ben 39 candidature: nel 1986 gli è stato assegnato l’Oscar alla carriera e, finalmente, nel 1987 l’Oscar come migliore attore protagonista per la sua performance in Il colore dei soldi di Martin Scorsese. Una ricompensa troppo tardiva che l’artista, amareggiato da tanti anni di vana attesa, non ha più ritirato personalmente.
Nonostante i suoi successi come attore Paul Newman ha sentito ad un certo punto della sua carriera la necessità di passare dietro la cinepresa considerando questa attività come un’evoluzione naturale, quasi inevitabile nel suo percorso di artista : “Il passaggio alla regia costituisce per me semplicemente un prolungamento del mio lavoro d’attore. Quando si amano gli attori tanto come li amo io, non c’è niente di più normale.”
I suoi film nascono da un sodalizio fondamentale, quello con sua moglie, l’attrice Joanne Woodward che ne è quasi sempre stata l’interprete principale. Questa circostanza come pure il tipo di soggetti che Newman sceglie – ritratti al vitriolo della società americana, in cui la donna soccombe alla pressione sociale e si trova spesso a dovere affrontare i propri sogni distrutti – ci rinviano ad un altro binomio d’eccezione del cinema americano di quegli anni, quello di John Cassavetes e Gena Rowlands. Ma se il lavoro di Cassavetes si nutre di un pathos spinto agli estremi, di un uso sperimentale dell’inquadratura in cui la cinepresa fa massa con i corpi e i volti degli attori creando una prossimità emotiva e visiva estremamente intensa, lo stile di Paul Newman è più classico, quasi severo, il suo approccio è, come ci indica il titolo stesso del film, di tipo scientifico. Lo sguardo di Paul Newman sembra osservare senza giudicare, sempre ad una certa distanza dai suoi personaggi, preciso ed impassibile.
L’influenza dei raggi gamma sul comportamento delle margherite, adattamento di un’opera teatrale di Paul Zindel, premio Pulizer nel 1971, ci narra la vicenda di Beatrice, una donna sulla quarantina, e delle sue due figlie: Ruth e Matilda. Beatrice, abbandonata ormai da anni dal marito, si trova a dovere tirare avanti da sola. Stanca, delusa ed amareggiata, la donna lotta a volte con più, a volte con meno convinzione, contro se stessa per non lasciarsi completamente andare e per potere sopravvenire ai bisogni della sua famiglia. Ruth la figlia maggiore, ribelle, scanzonata, sensibile e instabile, soffre di crisi di epilessia, Matilda la figlia minore, timida, silenziosa e tenace, vive nel suo mondo fatto di esperimenti scientifici. Il film è declinato al femminile, la presenza degli uomini è marginale e le loro apparizioni sullo schermo sono sporadiche. Il professore di scienze naturali, il fratello dell’ex-marito, un commerciante di antichità, il vicino di casa, un poliziotto ex-compagno di classe di Beatrice sono poco più che delle comparse. Beatrice non è più giovane ma non è ancora abbastanza vecchia per abbandonare completamente i suoi sogni di donna; di fronte al fallimento della sua vita personale e sociale, si rifugia nel ricordo del passato, di quando andava al liceo ed era una bella ragazza, corteggiata, amata da tutti e soprattutto divertente. Il presente è grigio, i soldi pochi e la sua volontà intermittente; Beatrice si trova a dovere affrontare l’incomprensione, il disprezzo e perfino la derisione della società che la circonda. La donna si abbandona spesso all’alcol ma si riprende per tentare, ogni volta di nuovo, di trovare una via d’uscita: progetta di aprire un salone da the, affitta una stanza della casa a degli anziani di cui si prende cura. Alla fine sarà la figlia minore che, vincendo a scuola il primo premio per il suo esperimento scientifico sulle margherite, riuscirà a dare speranza e dignità alla sua famiglia.
L’atmosfera del film è opprimente; più dei due terzi della storia si svolge in degli interni. Le case sono più dei luoghi di segregazione che degli spazi vitali. Ciò non vale solo per quella di Beatrice che è fatiscente, decrepita, disordinata, simbolo tangibile dello stato di declino sociale e psichico della sua padrona. La casa del genero benestante è altrettanto angusta, sovraccarica di soprammobili di tutti i generi – l’uomo stesso è bloccato a letto a causa di un&rsq
uo;influenza. Per non parlare del negozio dell’antiquario con il quale Beatrice ha un inizio di avventura che finirà nel più brusco dei modi: scuro, pieno zeppo di oggetti di ogni genere, soffocante. L’universo cromatico del film è dominato dai toni blu, grigio e marrone e la fotografia opta per una immagine netta ma spesso in semi oscurità. Le brevi scene in esterno sono come delle ventate d’ossigeno. Uno degli episodi esteticamente più belli del film è quello in cui Beatrice si trova a correre su una collina di un verde brillante, vestita con uno sgargiante cappotto rosso: in questo momento effimero di libertà e di speranza la cinepresa si muove liberamente nella natura e la fotografia ci sorprende con dei colori pieni di vita.
Trentacinque anni dopo la sua realizzazione, quest'opera ci stupisce soprattutto per la forza, la freschezza e la giustezza delle sue interpretazioni. Paul Newman dimostra tutta la sua sensibilità artistica nella direzione degli attori: sua moglie, Joanne Woodward, nel ruolo di Beatrice, la loro figlia comune, Nell Potts, in quello di Matilda e Roberta Wallach in quello di Ruth. Il personaggio di Beatrice costituisce in realtà una sorta di sfida che il regista lancia a sua moglie, di cui ha sempre ammirato il talento: “Ho comprato i diritti di questo libro perché pensavo che sarebbe stato un ruolo impossibile da interpretare per mia moglie… ma ogni volta che la metto davanti alla cinepresa, lei riesce a provarmi il contrario.” In effetti, quello di Beatrice è un personaggio complesso e contraddittorio caratterizzato da alti e bassi, momenti di sconforto e di abbandono totale e tentativi di riscossa: al tempo stesso autoritario ed aggressivo, disperato ed isterico, coraggioso e sensato, folle e ridicolo. L’interpretazione di Joanne Woodward, premiata a giusto titolo con la Palma d’Oro a Cannes nel 1973, è straordinaria. L’attrice spazia fra una quantità di registri differenti con grande naturalezza: orgoglio, vanità, tracotanza e fermezza si alternano a fragilità, instabilità ed eccentricità dando vita ad una figura di madre e di donna indimenticabile.
È un’alchimia rara quella de L’influenza dei raggi gamma sul comportamento delle margherite: attraverso una messa in scena sobria e discreta Newman riesce a rappresentare un piccolo mondo in tumulto, traversato da tensioni e forze laceranti, dove il dolore e la tenerezza si fondono senza mai scivolare nel melodramma. L’influenza è un film profondo e commovente, tagliente e limpido come un diamante. Speriamo che possa tornare un giorno sugli schermi italiani.