C’è un’altra Londra che non conosciamo e con tutta tranquillità potremmo dire che c’è un’altra Milano, Berlino, Roma, Parigi che non conosciamo. Di questa parte segreta delle nostre metropoli occidentali, Croneneberg va a mettere in scena l’evidenza violenta attraverso una narrazione di genere: un noir dove i buoni stanno da una parte e i cattivi dall’altra. Insomma le aspettative di chi guarda sembrerebbero soddisfatte. Al regista canadese però questo primo risultato non è mai bastato in passato, potremmo infatti definire semplicemente un western A History of Violence? Impossibile. Anche in questa occasione le regole del genere subiscono una concentrazione stilistica e vengono utilizzate per raggiungere territori inesplorati. Si tratta infatti della Londra dei nuovi immigrati che lo sceneggiatore Steve Knight aveva già attraversato con Piccoli affari sporchi di Stephen Frears in cui non c’era un inglese e i protagonisti erano un africano e un turco.
Questa volta, invece, oltrepassando la porta di un ristorante russo arriviamo in Europa orientale, in particolare entriamo in contatto con un’importante famiglia criminale russa, i Vory V Zakone, una mafia con un codice rigido e brutale che nel film fa affari col traffico di prostitute minorenni, con l’oppio afgano e altro ancora.
La promessa dell’assassino, togliamo subito da torno qualsiasi equivoco, non è un film sull’immigrazione, non ha nulla di documentario, al contrario è pura finzione che appare terribilmente vera. Con tutta la sua precedente opera, Cronenberg era riuscito a intercettare ossessioni e incubi invisibili nei tanti reality show dei nostri giorni, puntando lo sguardo all’interno dell’essere umano che in qualche modo (si pensi a Crash) appariva l’esito ultimo del capitalismo: alienazione, perdita di identità, l’immaginario scambiato per realtà. In questa circostanza gli occhi del regista sono diretti verso l’esterno e riescono ugualmente a intercettare l’oscuro e il rimosso. Infatti la quattordicenne russa che all’inizio del film muore dando alla luce un figlio era una vittima della tratta degli esseri umani. Anna (Naomi Watts), l’ostetrica che l’ha assistita durante il parto e che si impegna nella ricerca dei parenti a cui dare in affido il bambino, scoprirà i traffici della mafia russa.
È necessaria una breve digressione per capire il fenomeno appena accennato nella sintesi della trama. Dal recente rapporto di Save the Children si legge che in Italia sono 11.226 le vittime della tratta in Italia (619 minori) che, tra il 2000 e il 2006, sono entrate in contatto con istituzioni e organizzazioni del privato sociale. Nella maggioranza dei casi sono persone costrette a prostituirsi. Si pensa che questa sia solo la punta di un iceberg che riguarda l’intera Europa. Ci sono adolescenti coinvolti nel trasporto e spaccio di droga, provenienti dal Senegal e dal Gabon, ed esempi di grave sfruttamento lavorativo ai danni di ragazzi di origine magrebina, subshariana, albanese, romena e di altri Paesi della ex-Jugoslavia occupati soprattutto in agricoltura e in edilizia. La tratta non la scopriamo oggi, c’è sempre stata, in questo momento storico sembra condizionata dalla globalizzazione dei mercati, con la conseguente richiesta di manodopera a basso costo, con l’erosione delle tutele dei lavoratori, e con un contesto culturale consumistico che privilegia la soddisfazione dei propri desideri prima di qualsiasi valore.
Non sarà dunque un caso che la voce della ragazza portata in Inghilterra con l’inganno e poi violentata dal capobanda Semyon, interpretato magistralmente da Armin Mueller-Stahl, una sorta di padrino dell’Est, ritorni per tutto il film. In quel diario scritto in russo dalla quattordicenne, che Anna cerca di far tradurre dalle persone sbagliate, c’è la verità dal punto di vista della vittima, quindi la sua voce resta una testimonianza importante. Cronenberg disegna un mondo a strati in La promessa dell’assassino. Ci sono le “brave persone”: Anna, una donna comune come la sua famiglia, con le gioie e le infelicità che ognuno di noi può vivere mediamente, tuttavia ignara di quanto si nasconde dietro l’angolo di casa. Poi c’è un mondo di sfruttati che fanno pensare ai personaggi ritratti da Dickens all’epoca del primo sviluppo industriale capitalistico, in questa circostanza prostitute. Accanto a loro gli sfruttatori, esseri senza scrupolo alcuno che intrecciano la legalità con l’illegalità, organizzati al loro interno in rigide gerarchie familiari a cui capo c’è un re-padre, le cosiddette mafie. In mezzo a queste due categorie c’è l’infiltrato che per far trionfare il bene indossa i panni del male. Quest’ultimo ruolo è interpretato da Viggo Mortensen, una maschera impenetrabile, occhiali neri, vestito Armani. Sta a lui scendere in questo regno intermedio dove l’umano degrada a materia, a lotta animale, a violenza bruta, a un regime determinista secondo cui il debole deve crepare. Questa forza bruta in azione, nella scena della sauna dove Nikolai (Mortensen) si batte contro due sicari ceceni, è di una plasticità sconvolgente, difficile da sostenere con lo sguardo.
I corpi dei criminali del film sono ricoperti da tatuaggi che raccontano l’identità della persona, non più dunque all’interno di loro stessi sta la loro storia, ma in superficie. Sulla loro pelle c’è scritto chi sono, quali imprese, quali assassinii, quale carattere, quali carceri. Quasi a cancellare del tutto la propria interiorità, luogo in cui si esprime lo statuto di libertà dell’individuo, così da essere identificati e rintracciabili a vista, sotto controllo, neanche fossero dei prodotti privi di anima! Insomma la restrizione della propria identità al visibile pare coincidere con i codici a barre stampati sulle merci. Ma Viggo Mortensen, al di là dei quarantatrè tatuaggi che ricoprono l’intero corpo, ha un rapporto misterioso con Anne, fatto di silenzi e occhiate, a lei si rivolge con una intensità che va oltre il detto, brucia i vincoli delle regole stabilite dai mondi quali essi siano, tanto da riuscire a toccarla invisibilmente.
La scelta del noir per raccontare parte del genere umano risulta efficace. Quasi un altro approccio al “reale reale” per nulla falso. Abituati ad accedere ai frammenti di verità attraverso la sociologia, o l’approccio unicamente positivistico,ci siamo convinti che sia quasi l’unico modo per dire e che se non si passa per quest’ultimo non c‘è possibilità di accedere al reale. La scelta del genere letterario non potrà dare la dimensione numerica dei fatti, ma descrive bene, si comprende, si lascia il dubbio, e si dice che le cose sono più complesse di un rapporto immigrazione. Indubbiamente il film è carico di “umano” aprendo con decisione alla possibilità che solo l’umano è autore di scelte responsabili. Scelte a volte virtuose che avvengono in un contesto vizioso. L’umano autore restituisce alla responsabilità personale il non aspettare che qualcuno faccia qualcosa. Ecco allora l’infermiera, ecco allora l’autista…che risultano essere non solo gente di mestiere, ma capaci di comprendere e restituirci una realtà compresa e più comprensibile. Un bambino salvato dalle acque che ricorda Mosè… quasi a dire, ancora una volta, come i più deboli possono stimolare gesti di comunione intensa. La casa cambia con la presenza del bambino, i vestiti cambiano, i colori e le luci cambiano….. il noir è sicuramente più luminoso.
l’idea o anche la possibilità che i deboli, aggiungerei che la debolezza possa muovere a gesti di comunione intensa e chiamare al tempo stesso alla responsabilità verso l’altro mi sembra illuminante.