[**] – La cinematografia italiana ha avuto da sempre interesse a raccontare il fenomeno del terrorismo italiano ripercorrendo uno degli eventi più drammatici che ha generato un trauma collettivo nazionale – il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro – e concentrandosi sulle Brigate Rosse, l’organizzazione che ne è stata responsabile. Il terrorismo italiano però è stato un fenomeno diffuso su larga scala. Un numero spropositato di individui che sceglie la lotta armata in quegli anni ha un’età inferiore ai trent’anni e parecchi persino sotto i venti. Questo fenomeno copre quasi un ventennio, dalla fine degli anni ’60 a buona parte degli anni ’80.
Renato De Maria sceglie di mettere sotto la luce dei riflettori, per la prima volta nel nostro cinema, Prima Linea, un’altra organizzazione di lotta armata di sinistra i cui componenti, ragazzi e ragazze, scelgono di sparare, di ferire e poi di uccidere, in una deriva che li travolge, portandoli ad isolarsi dal mondo, senza che riconoscano più ciò che li ha spinti all’inizio. Si perdono dietro all’ideologia, non focalizzando più la realtà che li circonda.
Il film prende l’avvio dall’arresto di Sergio avvenuto il 15 gennaio 1983. Dietro le sbarre di un carcere l’uomo racconta la sua storia personale, la sua militanza in Prima Linea e l’incontro con Susanna, la donna della sua vita. Il 3 gennaio 1982 Sergio, con altri compagni, organizza l’evasione dal carcere di Rovigo di quattro detenute, tra le quali c’è Susanna. Mentre l’ora si avvicina Sergio ripercorre le varie tappe che lo hanno portato fin lì, rendendosi conto dei troppi errori in cui Prima Linea è incorsa. Una macchina con venti chili di tritolo fa saltare in aria il muro di cinta, le donne vengono liberate, ma le cose non andranno come spera Sergio.
Per la realizzazione di questo film c’è stata un’accurata e vasta documentazione: il regista e i suoi collaboratori hanno letto numerosi libri sull’argomento, anche quelli scritti da giudici. Il film è liberamente tratto dal libro di Sergio Segio “Miccia Corta” (Edizioni DeriveApprodi) nella parte relativa all’evasione. Per ciò che riguarda la vita privata dei personaggi la sceneggiatura ha previsto personaggi inventati come per esempio Piero, l’amico di Sergio. Il regista ha voluto porre l’accento soprattutto sulla difficoltà che avevano questi ragazzi nel relazionarsi col mondo esterno e che gli si muoveva intorno. Sergio, Susanna e tutti gli altri vivevano una vita separata dalla realtà, rinchiusi all’interno di un’organizzazione, come in una bolla d’aria sospesi dal mondo reale. In più di una sequenza si sottolinea il fatto che la gente per cui credono di lottare non li segue più a causa delle modalità di lotta non più congrue con i loro interessi. Seguire ciecamente un’ideologia ha fatto smarrire loro la strada intrapresa all’inizio del percorso. Questa separazione viene mostrata anche attraverso la scelta stilistica di De Maria, che inquadra spesso i vari personaggi mettendo come filtro dei vetri: quelli di una cabina telefonica o di una macchina o delle finestre. Inoltre la presenza dei muri dà l’idea che anche quando erano liberi vivevano, comunque, in prigioni, rappresentate dalle loro case fantasma, nelle quali si avvertiva un disagio. Hanno una totale incapacità di relazionarsi al di fuori del loro nucleo. Quando Susanna tiene in braccio un neonato non ha la minima idea di come si faccia e il suo sguardo è assente, fissa il vuoto, non prova alcuna emozione, quasi fosse un pacco.
Ciò che questi ragazzi hanno annullato sono i propri sentimenti, quelli verso gli altri e la propria umanità. Chi se ne rende conto, alla fine, è Sergio che in un confronto con Susanna le chiede quale amore sia il loro se non possono vivere alla luce del sole, come una coppia qualsiasi. Susanna azzera i sentimenti per la madre, è diventata una persona fredda e distaccata, determinata e coerente, a modo suo spietata. Portare avanti azioni armate in cui ci sono delle morti sembra non darle pensiero, convinta fino in fondo che ciò che sta facendo sia giusto. Si sparava alla funzione sociale che aveva un individuo e non all’uomo, annullando completamente l’aspetto umano. Il regista ha sottolineato un altro aspetto: il corteo delle macchine che si dirigono al carcere di Rovigo dà l’idea di un corteo funebre, che anticipa l’inesorabile disfatta di Prima Linea, organizzazione che non può avere futuro. De Maria ha scelto di raccontare la storia da un punto di vista personale, quello di Sergio, partendo dal momento in cui l’uomo prende coscienza che è tutto sbagliato. Il protagonista parla del passato per apporre un distacco dal medesimo, proprio quella distanza che il regista e gli sceneggiatori volevano cogliere. Il terrorismo è raccontato attraverso una storia d’amore, che procede malamente come la lotta armata. Renato De Maria ha voluto mostrare soprattutto la storia di una persona umana, di quale potesse essere l’iter psicologico che porta un ragazzino di diciotto anni a fare questo percorso sporco di sangue, bruciando le tappe.
Il regista si è imbattuto casualmente nel libro, attratto da una vicenda vera che racconta un pezzo di storia che nessuno aveva ancora preso in considerazione. Oggi, dopo quasi trent’anni dalla fine di quel periodo, ha pensato fosse arrivato il momento giusto per parlarne, per ricordare e riflettere. Il contesto sociale presente in quegli anni lo si è voluto introdurre all’inizio della pellicola e in alcuni accenni nell’arco del racconto. Sia Riccardo Scamarcio (che interpreta Sergio) che Giovanna Mezzogiorno (Susanna) sono riusciti ad esprimere bene il tormento e la solitudine dei rispettivi personaggi. La Prima Linea è un film duro, crudo e secco, che non dà alcun giudizio e dà allo spettatore la possibilità di comprendere quanto il fenomeno del terrorismo si fosse sparso a macchia d’olio coinvolgendo una giovane generazione in cerca d’ideali, convinta di creare un mondo migliore attraverso l’assassinio.