Il secondo capitolo della trilogia sul Novecento greco di Theo Angelopoulos è un poema visivo di straordinaria potenza e complessità. La polvere del tempo segue La sorgente del fiume (2004) e anticipa L’altro mare, che come ha dichiarato il regista nella conferenza stampa di presentazione del film sarà una pellicola sulla “crisi”, ma anche “la storia di un padre e una figlia. Un incontro tra due generazioni rappresentative: chi ha creato i problemi, e chi li sta scontando”.
Se la prima opera racconta gli inizi della tragica storia d’amore tra Spyros ed Eleni, muovendosi esclusivamente all’interno dei confini della patria di Omero, questa seconda tappa del lungo viaggio metastorico e metacinematografico del grande regista ellenico spalanca le porte a quelle terre, e a quegli eventi, che hanno segnato il destino dell’uomo a partire dalla seconda metà del XX secolo: l’Unione Sovietica, Gli Stati Uniti d’America, il Vietnam, l’Italia e la Germania. Spazi simbolici e luoghi di memoria che, nell’opera, raffigurano la geografia di un racconto in cui passato e presente si intrecciano senza soluzione di continuità. L’Unione Sovietica di Stalin fa da cornice al nuovo incontro tra i due amanti e al concepimento di A., il cineasta americano di origine greca che, raggiunta la soglia dei cinquant’anni, ha scelto di riprendere a girare un film misteriosamente interrotto tempo prima a Roma, negli studi di Cinecittà.
La Siberia rappresenta l’esilio forzato di Eleni e il punto d’incontro con Jacob, l’ebreo tedesco che deciderà di seguirla in America, dove è diretta alla ricerca di Spyros, emigrato lì a seguito dello scoppio della guerra civile in Grecia. Proprio l’America sarà testimone della riconciliazione tra i genitori di A., che nel frattempo ha ripiegato in Canada durante gli orrori del Vietnam. La città di Berlino, dopo il crollo del Muro, diviene metafora del tramonto di ogni speranza: è li che Jacob, intellettuale socialista deluso e amante tradito, deciderà di togliersi la vita sprofondando, insieme ai suoi ricordi, nelle acque del fiume.
Film difficile, La polvere del tempo, indiscutibilmente fascinoso sul piano visivo e seducente dal punto di vista stilistico, imbevuto di una soggettività a tratti struggente, sofferta, irriducibile, e al contempo ermetico, laborioso, cerebrale, esigente, “narcisista”. Il discorso cinematografico portato avanti da Angelopoulos con tanto ostinato vigore vuole porsi in netto contrasto con la standardizzazione, il conformismo e il generale appiattimento dei linguaggi artistici contemporanei, ma finisce col trasformarsi in un monologo ossessivo e anacronistico, paradossalmente troppo individualista per trascinare lo spettatore nella sua ininterrotta e tenace riflessione politica. E in questo senso le parole dell’autore di Lo sguardo di Ulisse, appaiono decisamente sibilline: “Se sono “fuori dal tempo” è perché alla mia epoca il cinema era un linguaggio ancora in grado di cambiare delle situazioni. (…) Dunque sono contento di provocare”. Sembra però che la poetica brechtiana, così tanto invasiva e totalizzante nella prima produzione dell’autore, prenda ancora il sopravvento sul tanto invocato ritorno alle origini, a quella rivoluzione aristotelica che vorrebbe recuperare le proprie radici: “In questo periodo sento piuttosto di essere tornato alla forma dell’antico atto tragico greco, quello che trova liberazione solo nella catastrofe finale: oggi l’analisi di Brecht non basta più a comprendere e rappresentare la disperazione della vita quotidiana”.
Il suicidio dell’intellettuale comunista, didascalica allegoria della fine delle grandi Utopie, rimane inscritto nelle categorie politico-ideologiche piuttosto che in quelle poetiche della catarsi a cui segue la rinascita culturale. Evidentemente, l’incontro tra i due fari della conoscenza, Brecht e Aristotele, è rimandato al terzo capitolo che concluderà la trilogia sul secolo appena trascorso. Nel raccontare la morte dei sogni, i drammi familiari e il crollo delle ideologie, Angelopoulos ricorre alla sovrapposizione temporale nel tentativo di sospendere, o meglio, “polverizzare” il tempo e la Storia, restituendone frammenti immaginari, sognati, ricordati e vissuti, molto più che ricostruiti. Questo viaggio lirico nel Novecento è attraversato da personaggi, romantici e idealisti, e soprattutto da attori (Piccolì, Ganz, Dafoe, Jacob) indiscutibilmente “immortali”, fuori dal tempo, disposti al gioco del concedersi alle esperienze artistiche più eterogenee, rischiose e indipendenti. Le immagini della storia di Angelopoulos appaiono quasi magiche, sfuggenti, irrecuperabili, al pari di una memoria che rischia di scomparire nella nebbia del presente. Ma i grandi quadri del regista ateniese vengono spesso abitati da un simbolismo didascalico e da alcune soluzioni liriche artefatte, che sollevano l’opera a un passo da terra, a più di un palmo da un presente che meriterebbe nuovi sguardi, nuove interpretazioni e nuovi punti di vista. Troppo sicuro, e infine autoreferenziale, La polvere del tempo. Ricco comunque di malinconica e luttuosa poesia: uno zibaldone di cinema sulfureo e irrisolto.