Cannes – La proiezione di Le quattro volte di Michelangelo Frammartino ha creato una spiaggia di pace all’interno del ritmo frenetico e estenuante imposto dalle dense storie di finzione della Quinzaine des Réalisateurs. Improvvisamente gli spettatori si sono trovati proiettati in un mondo rurale in cui la parola, assente, lascia ampio spazio all’immagine, ai suoni. La narrazione rinuncia al discorso come unico strumento esplicativo per coinvolgerci in un percorso aperto all’interpretazione e al flusso della vita. Una serie di glissamenti da un essere all’altro creano delle metafore non facilmente catalogabili; le associazioni si fanno con una libertà ed una spontaneità che ci invita alla meditazione. Frammartino sa captare in una stessa inquadratura, qualità rara e preziosa, l’istante e l’intemporalità, la contingenza e la trascendenza. Nonostante la spiritualità, un peculiare amalgama di misticismo pagano intriso di umanesimo, e il back ground filosofico del film, non c’è, ne si sente alcun atteggiamento didattico, alcuna forzatura, le cose sono tenute in una semplicità piena di grazia e di delicatezza. Così, con un sottile senso dell’humor, il regista accoppia, così come spesso accade nella vita, i momenti più tragici dell’esistenza a delle situazioni grottesche ed esilaranti. Poetico e contemplativo il gesto di Frammartino non è mai pretenzioso, rimane naturale, in presa diretta con la materialità di ciò che filma. Ed è proprio questo rispetto per la cosa filmata, questo approccio che va all’incontro, all’ascolto di ciò che ci circonda che è capace di operare un’epifania inattesa. La cosa stessa sembra rendersi, manifestarsi nella sua essenza; la captazione dell’immagine diventa così rivelazione e l’immagine stessa una forma di accesso all’invisibile.
Come è nato il progetto del film?
Per me questo film è arrivato da sè, come un dono. Mi si è imposto e ho dovuto arrendermi alla sua forza; più che come un autore mi sono sentito una sorta di strumento, di mediatore e, a dire il vero, ho fatto a lungo resistenza.
In che senso?
Di fatto avevo in mente un’altra cosa, un progetto urbano. A causa del mio film precedente, Il dono, mi sono trovato molto spesso in Calabria ed ho finito per scoprire, grazie ai miei amici, i paesi che compaiono in Le quattro volte. A loro devo pure la scoperta della festa dell’albero – la festa della ‘Pita’ – e del luogo dove lavorano i carbonai. Io, da parte mia, mi sono sempre interessato alla figura del pastore: la natura del suo lavoro lo porta ad essere una specie di mezzo fra l’umano, l’animale e il divino – nel Vangelo l’annuncio della nascita di Cristo viene fatto in primo luogo ai pastori. Inoltre sono sempre stato affascinato dall’animale perché sconvolge l’idea di messa in scena. Mi è capitata poi fra le mani una frase attribuita a Pitagora o comunque alla tradizione pitagorica. Secondo questa dottrina, per cogliere e comprendere pienamente la sua essenza, l’uomo deve conoscersi quattro volte: come minerale, in quanto il suo scheletro è composto di sali, come vegetale, in quanto il suo sangue è fatto di linfa, come animale perché ha una motilità e una conoscenza del mondo esterno simile a quella degli animali e come essere umano, in quanto è dotato di volontà e di ragione. E così che si sono venuti a cristallizzare questi quattro regni: l’umano, l’animale, il vegetale e il minerale. Alla fine ho sentito questo progetto come un qualcosa di molto personale, qualcosa che mi sono trovato cucito addosso: Le quattro volte non è il risultato di un’ossessione, ma piuttosto quello di una rivelazione. Ho molta fiducia in questo tipo di processo creativo; è il modo in cui, per esempio, Kiarostami è arrivato a fare Close up, gli è ‘capitato’. Si tratta di una specie di perdita di controllo, ci si piega alle cose che ci vengono incontro.
Quali sono stati i tempi di produzione del film?
Da quando questo progetto ha cominciato ad emergere fino ad oggi sono passati quasi cinque anni. Pensavo di metterci meno però é stata una gestazione lunga e molto sofferta! Per me la difficoltà maggiore è consistita nel capire in che modo un insieme di pensieri – come l’idea della metempsicosi – e di interessi personali potessero fondersi in un tutto; è per questo che, come dicevo all’inizio, ho fatto molta resistenza al progetto, ma alla fine ho dovuto cedere, tanto questo desiderio era forte.
Quale è stato il ruolo della scrittura in Le quattro volte rispetto al tipo di lavoro, meramente documentario, che avevi fatto prima?
Il mio cinema è un cinema che parte dai luoghi e dai corpi: sto lì guardo, fotografo, mi documento, non parto dalla pagina insomma. In realtà il mio materiale di base è il disegno tant’è che sto iniziando a fare un film di animazione su un ragazzino che cresce durante il periodo del cosiddetto riflusso. Di solito per me la scrittura è semplicemente uno strumento che deve aiutare i produttori a trovare delle risorse. Questa volta, vista la complessità del progetto composto di quattro film intrecciati, lo sforzo della scrittura mi ha aiutato – devo ammettere – a coordinare un po’ le cose. Io tendo a disegnare moltissimo, a fotografare, a fare delle riprese, delle animazioni e ad utilizzare la scrittura solo in fase finale; questo è il mio percorso abituale.
Nel tuo film prediligi dei piani fissi e dei campi larghi; potresti parlarmi di questa tua scelta?
Ne Il Dono per esempio c’erano solo dei piani fissi: ho l’impressione che nel piano fisso ci sia più movimento che nei piani basati su dei movimenti di macchina. Dove c’è movimento di macchina si impone il movimento a chi guarda, mentre nell’inquadratura fissa c’è un invito al movimento. Per me l’uso del piano fisso e della profondità di campo hanno la funzione di dare una più grande libertà a chi osserva. L’utilizzazione del campo largo offre inoltre la possibilità allo sguardo di correre al suo interno e permette di fare accadere più cose contemporaneamente. Un’inquadratura è qualcosa di molto definito, un modo per staccare, delimitare una porzione del reale e metterlo in rilievo… E proprio questo modo di vedere le cose che cerco di mettere in discussione con il mio lavoro; cioè l’idea che la fissità faccia sì che l’inquadratura abbia un’identità molto precisa, cioè quella che arriva fin lì e finisce lì. L’inquadratura fissa mi permette al contrario di dare alle immagini che tornano e si ripetono più volte all’interno di uno stesso film la dignità di un vero e proprio personaggio.
Le immagini sono per te rivelatrici di cose ‘altre’, eccedono l’intenzionalità di chi filma? Certamente! L’immagine può essere una forma di accesso all’invisibile. Se ti metti in una posizione di ospitalità, di ascolto, il reale ti offre sempre molto di più. Questa è una cosa che io percepisco molto di più guardando un&rsq
uo;immagine piuttosto che osservando direttamente la realtà stessa. Quando fotografo sento, in maniera alquanto evidente, che quanto sto guardando ha un ‘dietro’, un ‘oltre’: mostrare questa dimensione era una delle cose che mi premeva di più in Le quattro volte. Di fatto si filma un qualcosa che sfugge allo sguardo, un qualcosa che è ospitato dai corpi e li trascende. In fin dei conti Le quattro volte è la storia di un unico personaggio – anima, spirito vitale – che questi corpi si passano, per così dire l’un l’altro. Per me un’inquadratura è, in questo senso, qualcosa di preciso e di elusivo al contempo.
Come si fa a parlare di campo e di fuori-campo quando, in effetti, si sta filmando qualcosa d’invisibile?
Questa aporia mi piace; volevo che il mio film fosse aporetico in questo senso.
I piani a forte inclinazione sono una figura stilistica ricorrente nel film: il villaggio è ripreso in lontananza dal basso verso l’alto, il bivio davanti alla casa del pastore è invece inquadrato dall’alto verso il basso e poi c’è il piano, molto bello, dell’albero della cuccagna che tu filmi da una grande altezza. Perché questa scelta?
É una cosa abbastanza nuova per me. Nelle cose che facevo un tempo la macchina era molto bassa; la mettevo all’incirca al centro del corpo umano, non privilegiavo la testa. Ultimamente la macchina si sta effettivamente alzando, me ne rendo conto, tanto che le cose che sto pesando adesso, le nuove immagini che mi vengono in mente mi preoccupano quasi un pochino (ride). Avrei saputo dirti perché tenevo la camera bassa, adesso il perché si sta alzando non lo so ancora.
Quale è il rapporto fra osservazione documentaria e messa in scena in Le quattro volte? Effettivamente in Le Quattro volte c’è una messa in scena però nel corso del film la deriva progressiva dall’umano verso il non-umano va di pari passo con una mia graduale perdita di controllo e quindi, in qualche modo, con una de-saturazione della messa in scena. Sono abbastanza meticoloso nella costruzione delle scene però all’interno di questa struttura metto degli elementi sui quali non posso avere nessun controllo come gli animali e sono proprio questi elementi che danno vita al film. Nella sequenza centrale del film – il lungo piano sequenza col cane sul bivio – il controllo è stato assai arduo, per esempio. Decidere inoltre di fare tutto il secondo episodio di Le quattro volte sulla capra, significa scegliere a priori una figura che non riconosce la macchina da presa, che non si può addomesticare, né controllare e che dunque prende il dominio della scena.
In queste condizioni a te non resta altro da fare che metterti all’ascolto, metterti a disposizione. Lo stesso vale per un intero paese in festa che trascina, seguendo un rito molto antico, un albero… Quella della festa dell’albero è dunque una sequenza realmente documentaria?
Certo! Siamo andati ad Alessandria del Carretto a filmare la festa della “Pita” che De Seta aveva già filmato nel ’59: il carburante di questa festa è l’alcool, è il vino, quindi figurati se puoi controllare le cose. Se nel primo episodio, quello dedicato al pastore, l’uomo lo puoi ancora dirigere, via via che il film avanza c’è come una rinuncia alla direzione.
Una cosa che colpisce molto nel tuo film è la bellezza delle immagini e della fotografia. Hai girato in 35 millimetri?
In Calabria è difficile girare delle cose brutte! (ride) Per quanto riguarda il materiale utilizzato, io ho l’ossessione della scelta del supporto. Essendo architetto di formazione so bene che costruendo con il legno o col mattone, per esempio, i risultati sono completamente diversi. Per me il video analogico è molto diverso dal video digitale, dal numerico e dalla pellicola. Mi hanno invitato a fare l’anteprima del film sul web; non è che io mi opponga in assoluto a questo tipo di operazione, anche perché capisco il punto di vista dei produttori che hanno investito su un film fatto con delle capre, sono stati coraggiosi e quindi non voglio contrastarli, però penso che i film siano pensati per il grande schermo. La scelta del supporto per me non è una scelta dettata da considerazioni economiche. Nel periodo del Dogma si diceva che il digitale era la democrazia; per me questa è una sciocchezza. Mi è capitato di fare dei lunghi con 5.000 Euro; il risparmio non sta nell’uso della pellicola. La pellicola cattura la lingua muta della materia, crea un rapporto tattile con le cose. Su Le quattro volte ho difeso questa scelta fino in fondo perché la pellicola è come un calco del reale; questo rapporto di ‘contagio’ col reale era importante per me. Detto questo io adoro il video e ci lavoro con le installazioni ma è un tipo di strumento diverso. Bisogna capire che il video non è un surrogato della pellicola. La pellicola è tutt’altra cosa ed é proprio per questo che bisognerebbe conservarla. Purtroppo temo che non sia così. In laboratorio ti fanno la guerra per non lasciarti finalizzare in pellicola, cercano di convincerti con vari argomenti: “Digitalizziamola – ti dicono – che poi possiamo lavorare meglio sui colori, abbiamo più libertà, non se ne accorge nessuno!” Ti fanno perfino dei test per provarti che non te ne accorgi, tentano in tutti i modi di farti accettare la digitalizzazione anche perché non hanno più personale sufficiente per le lavorazioni. La pellicola scomparirà per il semplice motivo che non c’è più il personale per trattarla.
Potresti parlarmi del modo in cui hai trattato il suono nel film?
In Le quattro volte c’è la ricerca di un equilibrio fra i suoni umani e i suoni non-umani. Questa deriva dell’uomo verso l’incognita, la ‘x’, ho cercato di condurla anche, anzi direi principalmente, attraverso il suono. Paolo Benvenuti e Simone Paolo Oliviero hanno fatto un ottimo lavoro; quando sono andato a Berlino per il mixaggio i sound designer erano veramente entusiasti del suono che avevamo loro portato. La cosa più importante è stata poi quella di montare il film con Benni Atria. Benni è un grande montatore: montare con lui ha significato montare immagine e suono contemporaneamente. In questo settore Benni è una figura cruciale in Italia, pur avendo montato con dei grandi registi come Moretti o Amelio, è alla ricerca di un’altra maniera di fare cinema; montare con lui ti permette di ragionare in modo diverso su immagine e suono. In questo film, in un certo senso pitagorico, questo tipo di approccio del montaggio del suono è stato particolarmente significativo. Pitagora ha vissuto in Calabria a Crotone più di 2000 anni fa; la leggenda vuole che i suoi studenti, chiamati appunto ‘acusmatici’, ricevessero durante cinque anni il loro insegnamento ascoltando, senza mai vedere di persona, il loro maestro. Pitagora era nascosto dietro ad una tenda e i suoi discepoli stavano seduti ad ascoltare un suono che proveniva loro da dietro questa specie di schermo, un po’ come al cinema in sostanza. Il suono nel film ha veramente questa dimensione ulteriore è, in qualche modo, una terza dimensione. In questa prospettiva abbiamo utilizzato una tecnologia molto avanzata per far sì che il suono provenisse solo da dietro lo schermo. In tutto il film il suono è trattato in questo modo, tranne nei neri, dove la sala si ribalta ed il suono ci circonda.
Il montaggio, è stato un lavoro lungo e laborioso?
É stato molto difficile e laborioso; abbiamo montato quasi per un anno. Io al’inizio pensavo che sarebbe stato molto più breve.
Il film è stato dunque costruito essenzialmente in fase di montaggio?
Sì, ed è stata la prima volta che ho affrontato il montaggio in questo modo. Io insegno ai ragazzi che il montaggio è un momento artistico, creativo ed invece per me in passato non era stato altro che una semplice esecuzione della story. Questa volta, al contrario, quella del montaggio è stata una fase particolarmente intensa. All’inizio avevamo capito delle cose ma stavamo perdendo molto tempo e poi, per una serie di problemi di produzione, ci siamo resi conto di non avere tutto quello che ci sarebbe servito; questo ci ha obbligato a trovare un nuovo equilibrio fra le varie parti, abbiamo dovuto rinunciare a delle cose e, soprattutto, abbiamo dovuto trovare il giusto respiro del film. Questo processo ha richiesto veramente tantissimo lavoro. La situazione si è sbloccata quando abbiamo capito che bisognava montare insieme il suono e l’immagine.
Come si è venuta a delineare la struttura narrativa del film?
L’idea al principio era di fare una metà del film sull’umano e l’altra metà sul non-umano ma ci sarebbero state anche delle altre opzioni. É stato durante il montaggio che abbiamo deciso di strutturare il film in vari episodi separandolo a metà con un lungo piano-sequenza che segna il momento in cui lo sfondo emerge ed ingoia la figura umana. Progressivamente gli episodi seguenti sono leggermente più corti e ci conducono man mano verso l’essenziale proprio come accade con la produzione del carbone. La produzione del carbone infatti è proprio questo; ottocento quintali di legna vengono trattati, nel corso di trenta giorni va via tutta l’acqua e resta solo quello che conta. Le quattro volte riflette un’idea di circolarità: i passaggi successivi da un elemento all’altro fanno pensare ad una sorta di metempsicosi, di rinascita. L’aspetto a cui tengo di più è il viaggio che gli spettatori devono fare attraverso il film per unire queste quattro parti. Parlo di viaggio perché vedo che alcune persone considerano Le Quattro volte come un film suddiviso in quattro parti e ci mettono del tempo a connetterle – tu ti riferisci subito alla metempsicosi- ma per altri è meno evidente. La struttura circolare è sopravvenuta in fase di montaggio; l’abbiamo introdotta perché ci aiutava a sistemare delle cose. Detto ciò, di fatto a me piace molto chiudere un film nello stesso modo in cui l’inizio.
Il tuo film è dunque una ricerca che ci porta al di là dell’apparenza…
Questo film è costruito in primo luogo per lo spettatore, cioè per qualcuno che guarda e che ha voglia di ‘grattare’ l’immagine. Lo spettatore non è qui un individuo da condurre per mano ma qualcuno da rispettare. Come diceva Straub: “Giro per dei cittadini e non per degli spettatori!”. Le quattro volte è concepito per chi si mette di fronte all’immagine e ne vuole fare esperienza, però allo stesso tempo vuole essere anche un film molto semplice, intuitivo, legato alla percezione, ai sensi.
Quali sono i cineasti che ti hanno ispirato?
Direi quelli che io definisco come dei cineasti di confine: Bresson, Béla Tarr e Tsai Ming Liang, Lisandro Alonso o ancora Michel Snow. Devo inoltre molto al Gruppo “Studio Azzurro” di Milano per quanto riguarda l’esperienza delle istallazioni di video-arte.
Le quattro volte ha ottenuto a Cannes il Premio Label Europa Cinema 2010, un premio che favorisce la distribuzione dell’opera premiata permettendogli di uscire in un più grande numero di sale e per una durata superiore. Non possiamo che esprimere la nostra grande soddisfazione a questo proposito.