[***] Nel 1978 avevo cinque anni e nessuna idea di chi fosse Franco Basaglia. Solo diversi anni dopo ho scoperto che per molto tempo lo psichiatra veneziano è stato il principale responsabile dei miei incubi infantili. In quell'anno il celebre medico dichiarò guerra a tutti i bambini nati e cresciuti nel quartiere, periferia nord di Roma, dove nei primi anni del novecento fu edificato il manicomio di Santa Maria della Pietà. Dalla nostra strada si poteva vedere facilmente il manicomio, perchè è posto su un leggero altopiano ai piedi del quale si intersecano alcune viuzze intitolate a criminologi e psichiatri: Augusto Tamburini, Carlo Livi, Ezio Sciamanna. Fino al più noto Cesare Lombroso.
I cattivi hanno la faccia da cattivi . Aveva capito tutto Cesare Lombroso. Eccome. Il manicomio di Santa Maria della Pietà per noi era come un castello minaccioso da cui tenersi alla larga, messo lassù in alto come la casa della mamma di Norman Bates in Psycho. A volte mi capitava di dover camminare esternamente lungo il recinto che chiudeva le vite di quei dannati. Guardavo avanti, allungavo il passo e fingevo di non sentire le urla disarticolate e spaventose che giungevano dai cortili del manicomio. Qualche volta, spinto da un' irrazionale curiosità mi giravo e li vedevo. C'era chi defecava e chi camminava completamente nudo. Sempre lo stesso giro. Camminava all'infinito. Ce n'era uno che fumava sempre. E tremava. Una sigaretta dietro l'altra. La malattia dei bambini è la paura. Lo dice Celestini nel suo film. Paura del buio, paura dei mostri, paura dei ragni. Io avevo paura dei matti. Neanche i tossici, gli eroinomani che pure abbondavano in quegli anni dalle mie parti mi spaventavano così. Quando nel 1978 con la legge 180 Basaglia liberò i matti, loro si riversarono come orde di zombies tra gli abitanti della zona. Un' inopinata invasione. Migliaia, che dico, milioni di matti girovagavano minacciosi tra noi. Lenti, sporchi, barbuti e senza meta. Chiedevano sigarette e monete. Ne ero terrorizzato. Franco Basaglia fu per anni il nostro nemico. Il nemico di noi bambini. Ma non lo sapevamo.
Trent'anni dopo tutto è cambiato. Santa Maria della Pietà è ora un bel parco dove si va per fare jogging. Ci sono uffici pubblici e c'è il "Museo della mente", perchè quel luogo non vuole dimenticare ciò che per anni è stato. Un lager che ha separato e recluso un pezzo di umanità. Un'umanità malata e per questo indegna di vivere civilmente. Quasi tutti i vecchi padiglioni sono stati riqualificati. Tutti tranne il padiglione 18. Ancora piastrellato all'interno, da sembrare un carcere sovietico. E' qui che Ascanio Celestini ha girato una parte del suo film. Perchè è rimasto come era negli anni settanta. Per realizzare La pecora nera, nella sua forma teatrale prima e in quella cinematografica poi, il semi-esordiente regista ha compiuto un meticoloso percorso di ricerca durato tre anni all'interno dei manicomi italiani. Interviste, documenti e testimonianze lo hanno avvicinato alla materia. Ne ha ricavato un lavoro intimo e delicato, sensibile e pulito. Un racconto che non si ferma alla denuncia della condizione manicomiale, ma che viaggia dentro la coscienza di chi quella condizione l'ha vissuta. Il buon Ascanio, in questa pellicola, fa proprie le esperienze umane lette tra gli archivi degli ospedali psichiatrici e le interiorizza incarnando le diverse sfumature psichiche e comportamentali nel personaggio di Nicola, rinchiuso in maniocomio da piccolo perchè orfano.
La bontà di questo lavoro, al di là del suo valore civile, sta nella capacità per certi versi sorprendente che il regista dimostra nel governare elementi insidiosi come il tempo, un fattore che Celestini concettualizza facendone uno dei protagonisti del film. "Sono cresciuto nei favolosi anni sessanta". La voce ormai celebre del menestrello ripete fuori campo ciò che non si vede mai. Perchè la sua infanzia "anni sessanta" trascorre dentro una vita familiare di stampo contadino tutt'altro che favolosa. Gli anni sessanta per lui altro non sono che gli anni che precedono i settanta (ben fotografati dall'occhio scrupoloso di Daniele Ciprì), trascorsi nell'istituto a combattere contro i propri demoni. Trentacinque anni di manicomio, di farmaci, di trattamenti elettrici. Fino ad incontrare la persona di cui era innamorato da bambino, un momento di speranza che svela in realtà un profondo e tragico disagio.
Incantato e poetico, La pecora nera può contare su due ottimi calibri del cinema italiano odierno, Maya Sansa e Giorgio Tirabassi. Si è detto che il film manca di potenza drammatica, in realtà Celestini è soltanto fedele alla sua cifra poetica, incisiva ma lieve e grazie all'ausilio degli esperti scrittori di cinema Wilma Labate e Ugo Chiti, la sua ben nota abilità affabulatoria non si trasforma mai in soverchia verbosità. Consideriamolo come un debutto, Parole sante era altro. In questo film c'è qualcosa di incoraggiante per il nostro cinema e il pubblico della mostra del cinema a Venezia lo ha giustamente riconosciuto.